Se esiste un animale che ha qualche remota possibilità di avere un'anima, quello è il gatto. Per questo li odio: gli animali non si permettano di mettere in discussione il loro status, stiano al loro posto, non disturbino l'uomo, signore e padrone del mondo.
Non ricordo che faccia avessero o come si chiamassero il pollo o l'orata che ho mangiato oggi a pranzo, mentre mi ricordo in tutti i particolari i pochi gatti che hanno incrociato la mia vita. Qualcosa vorrà pur dire, no?
Odio i gatti. Non voglio avere niente da spartire con loro. La loro semplice presenza m'inquieta. Giugno 1992: sono in viaggio, passeggero sull'auto guidata da Fabio Fazio, da Dogliani a Modena. La sera prima abbiamo presentato alla biblioteca Luigi Einaudi di Dogliani la Storia della televisione italiana di Aldo Grasso; a Modena ci aspetta in un teatro la festa organizzata dalla famiglia Panini per il compleanno di Comix. È una domenica, è mattina: partiti da poco, stiamo percorrendo una statale deserta e rettilinea quando Fabio inchioda mandandomi a sbattere il muso contro il parabrezza (non c'era ancora l'obbligo delle cinture). Fabio spalanca la portiera e si precipita a raccogliere qualcosa fra la ruota anteriore destra e il fossato. Si tratta di un gattino, così piccolo da stare accucciato nella sua mano destra.
«C'è mancato poco che lo mettessimo sotto», dice accarezzandolo.
«Be'», faccio io. «Non è successo. Lascialo giù e ripartiamo».
«Scherzi? Lasciarlo qui significa condannarlo a morte».
«Non penserai mica di portartelo dietro?»
«Che male c'è? A Modena troveremo di sicuro qualcuno che se lo prenda».
«Come sarebbe che male c'è? È pericoloso guidare tenendo in mano un gatto».
«Appunto. Lo tieni tu».
«Mai! Piuttosto scendo e faccio autostop».
«Lascialo sul tappetino. Fai solo attenzione a non calpestarlo».
Ripartiamo. Il gatto non trova di meglio che accucciarsi sulle mie scarpe. Ho il terrore che faccia pipì sulle mie scarpe. L'odore di piscio di gatto è micidiale. È vero che i sommelier, schedando i vini bianchi, talvolta scrivono che si sente la pipì di gatto, ma appunto per questo motivo io prediligo i rossi. Viaggiamo fra Alba e Asti e stiamo per incrociare lo stradone che taglia in due la frazione Motta di Costigliole, luogo di origine della famiglia di mia madre. Ho un'idea. Lì abita ancora Malvina, una lontana parente che non vedo da tempo: è ora di farle visita.
Malvina apre il portone. «Guarda chi ti ho portato», le dico. «Fabio Fazio!».
Fabio scende dall'auto e stringe sorridendo la mano a una Malvina tutta emozionata. Nell'altra tiene il gattino. «Guarda cosa ti abbiamo portato!». La mia voce vibra di entusiasmo: «Questo bel gattino!
È tuo! Ti terrà compagnia!».
Malvina arretra spaventata: «Oh, no! Io sono allergica al pelo del gatto!». Salutiamo e ripartiamo.
Io odio i gatti, perché li invidio. Invidio la loro sinuosa eleganza, il loro cadere sempre in piedi, il distacco dalle cose terrene, lo spirito di indipendenza, l'arte di sedurre, l'intraprendenza, lo spirito d'avventura, il gusto per la vita notturna.
Io odio i gatti, perché se fossi un animale sarei un cane, servile, fedele fino alla morte, capace di ogni abiezione e conformismo pur di non essere respinto, goffo, inelegante, esagerato, bavoso, abitudinario, oppresso dal senso del dovere, stressato dal desiderio di compiacere i miei padroni, conformista, gregario. Se avessi la coda, scodinzolerei anche dormendo.
Piemonte Parchi
Odio i gatti...
- Bruno Gambarotta
- gennaio 2010
- Sabato, 2 Gennaio 2010