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Riflessi di luoghi

Ecco cosa succede quando un grande critico disegna una mappa di monti, laghi, colline, vigne, case, fiumi, boschi e chiese del Piemonte, accostandoli allo sguardo che questi luoghi hanno ricevuto da autori noti o poco conosciuti. Un affresco sublime, un inventario struggente, una ricognizione densa di colori e di sorprendente bellezza

  • Giovanni Tesio
  • aprile 2010
  • Giovedì, 15 Aprile 2010
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Visto dalla "regal Torino", il paesaggio che De Amicis osserva da Superga è plurimo e scenografico: un vero e proprio Theatrum Sabaudiae naturale. Monti, colline, piana, laghi che di lontano danno un'illusione di mare: laghi di ornato incanto, dall'Orta al Maggiore, un fiume come il Po (che vale da solo un gran percorso letterario), torrenti e affluenti a far corona, boschi e "lame", centro e periferie, la diversità di un panorama che resiste – almeno in parte – agli imperativi della globalizzazione. E qui grandi e buoni nomi (anche se spesso misconosciuti), da Sebastiano Vassalli a Laura Bosio, da Nuto Revelli a Nico Orengo, da Oddone Camerana ad Andrea Demarchi ad Alessandro Perissinotto. Oppure, volendo risalire i corsi come i salmoni, altri nomi ancora: da Foscolo a Faldella, da Tarchetti a Sacchetti, da Calandra a Torelli, dalla Marchesa Colombi a Maria Giusta Catella. Ancorché i dimenticati (per forza di spazio) restino i più. Ieri come oggi, il Piemonte è una terra propizia ai giochi di specchi, di riflessi, di metamorfosi che si consumano nei silenzi più domestici e segreti. Da Alba a Orta, da Venaria ai Becchi, da Varallo ad Agliè, da Aramengo a Grinzane, da Fossano a Vignale, da Saluzzo a Mondovì, spetta ad ogni visitatore provveduto cogliere la singolare bellezza degli angoli più suggestivi, evocando solitudini antiche: dall'icona emblematica della Sacra di San Michele a quella del Rocciamelone, andando per le zolle di Montiglio, le vigne del Monferrato, delle Langhe o del Roero, le lande canavesane, le risaie di Balocco, le pietraie della Valle Sessera (quella della tragica avventura mondana di Dolcino, più volte raccontata da un poeta come Tavo Burat), le architetture religiose della Val d'Ossola, i santuari come Crea (Pavese) e Oropa (tutta un'antologia, da Giovanni e Oddone Camerana a Andrea Demarchi, da Giuseppe Giacosa a Emanuele Sella), i crociani otia di Pollone (dal prezioso Antonicelli all'ubiquo poeta Blotto), gli "inverni alti" di Jona, le costruzioni walser di Pedemonte (una sorta di sineddoche), passando per i luoghi ignoti e inesplorati (ad esempio il quasi nulla che resta della Baraggia novarese, cara ai Graziosi e ai Colombo). Dietro ogni cosa, ogni casa, ogni chiesa, ogni monumento, il qualcos'altro che sempre trapela: un'allusione analogica, una scritta misteriosa, un avviso d'ombra che consente di entrare nel varco murato del mondo, di scardinarne la resistenza, di tentarne gli enigmi. Piemonte, insomma, che si dispone come in uno scenario di fantasmi: da un profumo gozzaniano a una distorsione spaziale, alla Escher; da un'eco ferrigna a una suggestione di ascendenza metafisica o surreale, alla De Chirico, per approdare a possibili reviviscenze laconiche o tessale, come divinava l'altro De Chirico – Alberto Savinio – che in un suo commento a Luciano individuava nella campagna tra Carmagnola e Carignano un tempio saturo di misteri. Venendo al merito, è impossibile in poche cartelle disegnare la mappa letteraria di un Piemonte per nulla estraneo alle lusinghe della scrittura. E dunque, in tanta varietà di stimoli e di documenti probanti, non si tratterà che di delibare a caso qualche cantuccio dell'enorme mappa. Tra "bricco" e costa, tra bacii e solatii, si distinguono le colline di Langhe, Roero e Monferrato, come ci hanno insegnato le pagine di Pavese e di Fenoglio: dalla cascina del Pavaglione (La malora), dove Agostino Braida viene mandato dal padre a lavorare per pochi "marenghi" l'anno, al casotto di Gaminella (La luna e i falò), dove Anguilla ritrova in Cinto il suo doppio-bambino. Cosa di cui ha tenuto conto Nuto Revelli raccogliendo le storie del suo volume maggiore, Il mondo dei vinti: da Elva a Stroppo, da Barolo a Serravalle Langhe, da Borgo San Dalmazzo a Demonte, viaggi e passaggi innumerevoli per cercare i discapiti di un mondo in punto di morte, come un autodidatta che vede spegnersi con la vecchia società contadina un patrimonio preziosissimo di cultura che più non c'è.
Tralasciando tuttavia le suggestioni canoniche della Langa favolosa di Augusto Monti, della simbolica di Pavese, dell'eroica di Fenoglio, della furibonda di Arpino, della domestica di Gina Lagorio, come dimenticare le non meno vive suggestioni delle strade che corrono alle frontiere memorabili (il Tenda, la Maddalena, il Moncenisio, il Monginevro, il Sempione...), da cui si dipartono – in prosa e in poesia – voci letterarie ben vibranti: da Lalla Romano a Mario Soldati, da Enrico Thovez a Giorgio Calcagno a Sergio Pent? Come trascurare i tanti viaggiatori del Grand Tour, che arrivano fino allo stupore di Saul Bellow messo in bocca al suo alter ego Augie March? «Se avete visto la tonante bocca aperta di un inverno londinese nei suoi ultimi orridi minuti di luce fluviale o siete entrati a Torino dalle Alpi con un freddo tintinnio nel bianco vapore dicembrino allora avete conosciuto una pari grandiosità di luoghi». Si potrebbe scegliere di andare per luoghi d'aura. A Orta, per esempio. E allora citare Ernesto Ragazzoni, l'impertinente, il ludico, il dissidente: l'ilare esaltazione dei didietro ortesi (cui fanno pendant le più caste ma non innocue giocolerie di Rodari). E poi tutta una sequela di narratori, di poeti, di viaggiatori, di memorianti, di cultori: il lago, la sua storia, la suggestione paesistica, l'isola, gli imbarchi, i colli, i bollori d'acque, i fumi d'inverno, i nitori settembrini, il Sacro Monte (la meta ciabattona dei coniugi Gibella del vercellese Cagna, rivisitata con tutt'altra allure da Laura Pariani nel romanzo dell'impossibile liaison Nietzsche-Salomé). Per non citare il citatissimo Montale. Per non proporre l'inevitabile Soldati: il sodalizio con Mario Bonfantini, Corconio, Orta mia e la Madonna del Sasso, estri e sentimenti di un narratore di fondi e sottofondi. Per non convocare il laghismo di Chiara, la malizia di Vassalli, il bisbetico Mazzetti, «ispido di pelo fulvo e ingrigito», come lo ricorda Egi Volterrani. E ancora: i misteri della Mancinelli, un Natale di Defilippi, alcuni "cantos" di un poeta come Fratus che cataloga respiri di bellezza: «la pneumatica foresta vivente», i boschi di «castagni e betulle», «il lago che si perde in tinte notturne», l'«isola che sboccia», le «alte mura del seminario». E così via, in un inventario di approssimazioni, che fanno di Orta – sito di privilegio – un luogo ideale di invenzioni (e distorsioni). Oppure si potrebbero visitare i "padri delle colline", da Lorenzo Mondo a Umberto Eco, da Rosetta Loy a Elio Gioanola: chi come Mondo rievocando un universo – da Viarigi tutt'intorno – dietro una mappa vaticana; chi come Eco irresistibilmente disegnando l'assedio di Casale (le sue pagine migliori insieme a quelle dell'Alessandria nebbiosa di Baudolino); chi come la Loy percorrendo le sue "strade di polvere" tra Mirabello e Lu o raccogliendo il respiro del tempo dentro una casa che finisce a scricchiolare «come un vascello in rada»; chi come Gioanola tracciando i percorsi di guerre vere e finte lungo i saliscendi della memoria e dell'oblio di Prelio-San Salvatore.. Ma entro questa mia ricognizione assai difettiva, la montagna resta la presenza di maggiore rilievo e importanza. La solennità frastagliata e diversa delle Alpi diventa l'espressione di un assoluto naturale e si presta a fermi-immagine capaci di raccogliere tutto il sublime di una bellezza esemplarmente drammatica che partendo da Quintino Sella arriva a Lalla Romano, Vittorio Foa, Massimo Mila, Enrico Camanni. A far data dalla linea risorgimentalista e sabaudo-centrica del ben noto Panorama militare delle Alpi Piemontesi di Cesare Balbo, è ancor sempre deamicisiano lo sguardo più innamorato, che partendo dalla sommità della cupola di Superga arriva d'un colpo ad abbracciare l'intero arco alpino del Piemonte, la «maestà superba delle grandi montagne che fanno corteo». Quelle da cui siamo letterariamente partiti e a cui letterariamente torniamo, dopo un viaggio approssimativo che spero "metta la voglia" più di quanto l'abbia saputa (o potuta) soddisfare.

Diletta collina
I Sansouci, letteralmente gli sfaticati, è l'opera più importante di Augusto Monti.
Ambientato tra Val Bormida e Torino, racconta la saga famigliare della famiglia Monti con gli occhi di Carlino (Augusto); il romanzo è anche l'occasione per riflettere su di un secolo di storia torinese e piemontese.
Grazie alle belle pagine dedicate al carnevale di Monesiglio è stato possibile recuperare e riproporre in Valle Bormida la tradizione dell'"Orso di Piume".
Il brano qui di seguito proposto grazie alla gentile concessione dell'Editrice "Araba Fenice" di Boves", che ha recuperato dall'oblio Augusto Monti rilanciandone l'opera, descrive una gita "d'antan" alla basilica di Superga e alla collina torinese ora tutelata dal parco regionale.
«È bella, bella tanto, in quel cerchio di colli, la mia Superga, che tutta riassume in sé la diletta collina di Torino. Da tanto tempo l'avevan vagheggiata dalla finestra a levante, lontana e incerta per quel po' di bruma, vicina e distinta dopo le giornate di vento, bianca di neve, verde di bosco, turchina di lontananza vesperale; mai più vi saremmo saliti in vetta; domani l'avremmo scalata tutta; oggi eravamo là. Tutta l'avevamo corsa, sotto i piedi la tenevamo, di più alto nulla tutto attorno. E in basso, a ponente, tra fiumi e monti, lo spettacolo della città che non finisce di crescere, e straripa visibilmente dai limiti ognor dilatati, tutto il piano lì sotto t'invade, è al Parco, è ad Altessano, è a Stura, è al Sangone, e non s'arresta mai, incontenibile promettente preoccupante.
Ma ora che ci siam portati di là per scendere a levante, attraversar quel prato e raggiungere il bosco, con due passi – due passi e non di più – ecco che siamo in un altro mondo. Che città, che piano e che fiumi? Nulla più; una successione di dorsi, una successioni di valli, una porzione di Monferrato, del Monferrato di Papà; sì che a lui sembra d'essere già, anziché a Superga, a Castelletto d'Erro od a Roccaverano, a' piedi d'una di quelle torri diroccate a guardarsi il panorama di là; solamente che di tutti i paesi che si scopron di qui non mi sa dire il nome neanche di uno, mentre invece quelli là tutti li nominava ad uno ad uno, Olmo Gentile, Cessole, Vesime, Loazzolo, Montabone, perché tutti li conosceva e in tutti era stato chissà quante volte, e da piccolo e da grande.
E attraverso il prato e giunti al limitare del bosco – altri pochi passi, pochi passi appena – allora niente più né Superga né Chierese né Astigiano né Langhe né nulla; ma c'è tutto quello in quel bosco, e tutto il resto; tu non sei più né qui né la, ma sei qui e là e più là ed altrove ancora; sei dappertutto ed in nessun posto; sei dove vuoi meglio; sei dove piace a te.
La magia di quei boschi, dei boschi della collina di Torino! I boschi di tutti, i boschi di Papà e del suo piccolo compagno. Rada verdura di piante, maestà vetusta di tronchi e di fusti, macchie cespugli fratte, callaie bivii crocicchi, rigagnoli riviere, radure, ombre, tenebre, sussurri, frulli, richiami, echi. Altro mondo».
Augusto Monti

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