Se corriamo troppo velocemente nel sentiero del bosco, possiamo non accorgerci del profumo dei fiori nascosti e delle gocce di pioggia sui loro petali, simili a pietre preziose; probabilmente non ci accorgeremo nemmeno dell'altissimo tronco di un albero morto che, nel cuore della foresta, si è trasformato nella casa comune di uccelli diversi. Vivere è intendere ogni istante della vita come un miracolo che non potrà mai ripetersi.
(Marcio Kuhne)
Il sentiero, salendo in direzione del Lago Bagnour, si inoltra nell'ombra di quel bosco millenario ai piedi del Monviso di cui parla Virgilio nell'Eneide: l'Alevè è la più estesa cembreta dell'Europa meridionale, con un nome che trova il suo significato nella lingua dei trovatori: gli occitani chiamano "elvo" il pino cembro (Pinus cembra).
I ruscelli lungo la pineta, che originano dai laghi alimentati dai nevai d'alta quota, sono dispensatori di fresco e la salita è lieve, si fa senza fiatone. I resti di una ghiandaia (Garrulus glandarius) predata da un falco accanto al sentiero, sono traccia della presenza di altri mondi paralleli al nostro: quello delle specie animali e delle nicchie che occupano. Il bosco dell'Alevè, tra i 1600 e il 2500 metri di quota, appartiene più alle nocciolaie (Nucifraga caryocatactes) che alle ghiandaie, ma qui siamo al limite altitudinale dove le due specie convivono. Sono due corvidi di taglia e abitudini simili, con un habitat stratificato: una è sovrana delle pianure, l'altra delle montagne: i piemontesi chiamano "gai" la ghiandaia, gli occitani con lo stesso nome la nocciolaia. Le nocciolaie, che qui raggiungono la loro massima densità di popolazione, sono custodi e paladine del bosco: si nutrono dei pinoli del cembro e contribuiscono a far germinare nuove piantine con le scorte di semi che nascondono in autunno e che spesso dimenticano.
L'estate che inizia mostra il suo tripudio: rose canine, rocce chiare coperte di muschi e di fiorellini bianchi sconosciuti, sempervivum capaci di trasformare gli angoli della loro presenza in scorci di giardini rocciosi, campanule, garofani selvatici, viole del pensiero... Una farfalla Parnassius apollo che fa evoluzioni nell'aria porta alla memoria racconti della mitologia classica. Il nome di molti lepidotteri ricorda le muse e gli dei greci: il genere Parnassius deve il proprio appellativo al Parnaso, luogo di soggiorno delle muse e di Apollo, e la specie Parnassius apollo celebra il dio del sole.
Chi semina buon grano, ha poi buon pane; chi semina il lupino, non ha né pan né vino.
(Proverbio toscano)
Tutto d'un tratto il bosco si apre in una radura che sembra l'illustrazione di una favola. Due baite si affacciano su un grande prato costellato di lupini (Lupinus sp.) fioriti. Sono rosa viola, rossi, blu, in mille sfumature, e sono ovunque, disposti dietro e davanti alle grange in una maniera armoniosa che appare spontanea ma non casuale, come se fossero stati guidati dal pennello di un pittore.
L'autore del disegno si chiama Peio. E' lui il responsabile del fascino che emana quel luogo: artigiano eccezionale, ha ricostruito per la famiglia le due baite che erano ruderi. Grongios Martre oggi è un rifugio di grande fascino per gli amanti del silenzio e della quiete, con una marcia in più che non è solo dovuta alla serena cordialità dei suoi gestori, Luca e Laila (la figlia di Peio). Ci sono voluti dieci anni all'artigiano per completare l'opera, usando solo materiali del posto: pietre, legno di cembro, beole di vecchi tetti di baite dismesse. In quei dieci anni Peio ha ricrerato l'identità del luogo, quel genius loci capace di trasformare un lavoro di alto artigianato in opera d'arte. Con la stessa sensibilità per cui sapeva dove mettere le pietre e come disporre le travi, ha guidato i lupini nel prato. I primi tempi lo prendevano tutti in giro: "Ma cosa ne fai di tutti quei lupini? "Lui ha incominciato a invitare gente, dicendo che alle grange c'era la sagra dei lupini. Adesso chiunque passi da lì d'estate ne rimane incantato. Peio commenta: "Vorrei vedere: non c'è nessuno a Pontechianale che ha dei lupini così!" Non si rende conto che, al di là di Pontechianale, sono ben pochi anche altrove a poter offrire uno spettacolo simile...
Sulla riva c'era soltanto padron 'Ntoni, per quel carico di lupini che ci aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini.
Giovanni Verga- I Malavoglia
La coltivazione dei lupini, certamente non come pianta ornamentale, potrebbe risalire a 4000 anni prima di Cristo. Il botanico ottocentesco de Candolle afferamava che erano stati trovati semi di questa pianta nelle tombe dei faraoni. Sappiamo con certezza che gli egizi già 2000 anni prima di Cristo coltivavano il Lupinus termis a scopo alimentare: la cottura toglieva al seme il sapore amaro e ne faceva staccare la buccia. Erano coltivati anche il L. angustifolium, il L. graecus a semi bianchi e il L. albus, i cui semi, tenuti a macerare a lungo in acqua, erano particolarmente apprezzati e venduti nelle vie di Roma: era tradizione che i generali trionfanti li distribuissero gratuitamente al popolo e lo stesso facevano i candidati aspiranti a cariche pubbliche, per conquistarne il favore. Ancora negli anni 50-60 del secolo scorso nelle viuzze cittadine, i venditori di lupini col tirciclo o anche solo con una tinozza, si vedevano alle uscite delle scuole: probabilmente vendevano semi della stessa specie di lupino che usavano gli antichi romani.
Lupinus deriva dal greco, dalla parola lype, che significa dolore, tristezza, amarezza. Probabilmente i motivi sono due: perché il seme non cotto, che contiene alcaloidi tossici, è amaro, e poi perché era considerato un alimento miserabile e squallido.
Otto o nove pagine dedicava il Vilmorin ai Lupini e ne illustra sedici specie, mentre autori italiani come Gori, Girardi, Grati, neppure lo nominano: da questo si può dedurre quale è stato il favore di cui hanno goduto nel passato i Lupini.
Ippolito Pizzetti- Enciclopedia Garzantiì dei fiori e del giardino
Popolarissimi in Inghilterra, in Germania e soprattuto negli Stati Uniti, da cui origina la maggior parte delle specie selvatiche, in Italia hanno più fortuna al nord, meno al centro e al sud. La ragione è che non sono così facili da coltivare e non tutte le zone sono climaticamente adatte: negli Stati Uniti prosperano nella parte centrale del Nord America, meno altrove. In Italia lo stesso: sopratutto gli ibridi moderni vogliono sole ma anche acqua in abbondanza nei periodi siccitosi. Soffrono la presenza del calcio, che può portarli a rapida morte. La specie più sfruttata, dove le condizioni del clima e del terreno lo consentono, è il Lupinus luteus, spontaneo in tutto il bacino del Mediterraneo, ma coltivato anche nell'Europa centrale e in Russia. Un tempo era usato solamente come leguminosa da sovescio, allo scopo di ingrassare il terreno e arricchirlo di azoto. I semi contengono fino al 45% di materie azotate e una buonissima percentuale di sostanze grasse. Il prodotto è utilizzato come sostituto della cicoria nei surrogati del caffè, o sfarinato nella composizione di farine per il pane e la pasticceria, dove è mescolato con farine di avena e di piselli o di fagioli. E' usato anche come foraggio verde, di solito seminato dopo il raccolto del frumento come coltivazione intercalata, per sfruttare al massimo il terreno, di cui, sovesciato, migliora moltissimo la qualità perchè fissa l'azoto atmosferico.
Circum agitur lupinus quotidie cum sole. Plinio
Il Lupinus polyphillus, padre dei più begli ibridi da giardino, è stato introdotto in Europa nel 1826, ma la sua era iniziò dopo il 1911, con la selezione di numerosi ibridi di svariati colori. La buona sorte ha voluto che un artigiano con spirito d' artista come Peio si sia imbattuto in alcuni di questi ibridi e li abbia piantati in una radura di un bosco in cima alla Val Varaita. Forse, negli anni che ha dedicato a quel luogo remoto per renderlo accogliente, avrà usato i lupini come marcatempo, dato che le loro foglie hanno la caratteristica di rivolgersi tutto il giorno verso il sole, anche quando il tempo è nuvoloso. Dalla loro posizione rispetto allo stelo Peio, se voleva, mentre lavorava poteva con una certa approssimazione sapere l'ora. Forse però non gli interessava: il suo è stato un fare senza tempo, che ha prodotto nel suo angolo di mondo qualcosa di straordinario, con le baite e il loro intorno diventate grandiosa aiuola all'interno di quello sconfinato giardino che è il bosco dell'Alevè.