La sera del Capodanno 1910 il giornalista napoletano Antonio Casulli giunse a Torino per intervistare l'idolo della sua adolescenza, Emilio Salgari, cui nel 1897 la Regina Margherita aveva conferito la croce di Cavaliere perché aveva saputo "istruire dilettando" i fanciulli italiani, e non solo loro. Con la tramvia che portava a Chivasso, Casulli arrivò fino al Ponte di Sassi. Lo scrittore abitava in un villino disadorno, di poche pretese, svuotato d'energie dopo un forsennato lavoro trentennale, spaventato dalla cecità incombente.
Si sentiva escluso da un mondo che lo considerava un fenomeno da baraccone, e non era disposto a riconoscergli lo status di vero scrittore.
Sua moglie Ida, da lui detta Aida in omaggio all'eroina verdiana, spiegò al giornalista che erano andati a stare lì per via dell'aria buona che scendeva da Superga. Lui confermò che la campagna gli era sempre piaciuta, sin da quando i suoi l'avevano spedito a balia sulle colline di Valpolicella, dove tentava avventurose navigazioni in torrenti e canali a bordo di una brenta o di una zattera costruita alla peggio. L'acqua era un altro dei suoi grandi amori. Malgrado fosse stato bocciato all'Istituto Nautico di Venezia, si presentava come capitano di lungo corso e raccontava di viaggi avventurosi negli oceani. Se, lasciato il giornalismo per vivere dei suoi romanzi, si era trasferito a Torino, non era solo perché la città era allora una capitale editoriale e qui poteva trovare un lavoro stabile: il Po gli ricordava l'Adige di gioventù, prima che lo ingabbiassero in alti muraglioni dopo la disastrosa alluvione del 1882.
Alla Madonna del Pilone la natura era ancora incontaminata. Con i loro fumi sporchi, le fabbriche di automobili (ne nasceva una alla settimana) erano altrove: in precollina, in Vanchiglia, a borgo San Paolo. Il cavaliere amava passeggiare sull'argine, sempre avvolto nell'impermeabile giallino e nel fumo delle sue sigarette, dove la sua fertile immaginazione non aveva difficoltà a trasformare nelle giungle del Borneo platani, pioppi, frassini e robinie che crescevano disordinate. Accanto al Po correva il Canale Michelotti, che raccoglieva le acque della collina (fu davvero insensato interrarlo con i detriti del rifacimento di via Roma in epoca fascista). In mezzo al fiume c'era l'isola detta "dei conigli", che per i ragazzi rappresentava una meta favolosa e ambitissima, ad onta dei divieti dei genitori: una prova di coraggio. Sulle rive si muovevano barcaioli, cavatori di ghiaia, pescatori, lavandaie, che poi stendevano nei prati vicini le loro lenzuola che sbattevano al vento come vele. Nelle piole ("Stella d'oro", "Sebastopoli") e nelle bocciofile si beveva gagliardamente e si cantava in libertà fino a notte fonda. Il borgo ospitava rinomati ristoranti, ed era diventato una meta di buongustai: ci faceva bel fresco anche d'estate.
In quell'ambiente di canali, mulini e acque placide lo scrittore cercava di medicare stanchezze e depressioni.
Ogni tanto provava a pescare anche lui, sempre con l'aria di chi aveva catturato tonni e barracuda, ma con scarso successo.
Per non tornare a casa a mani vuote, passava dal mercato e i pesci li trovava lì sui banchetti.
A casa ridevano: miracolo, il mare era arrivato a Torino! La domenica portava i bambini a fare scampagnate e merende; qualche volta lasciavano il fiume per la collina.
C'è rimasto l'elenco dei cibi che allietavano il cestino dei Salgari: frittatine, pesci marinati, uova, sarsèt... Erano anche gite d'istruzione. Il cavaliere sembrava conoscere gli usi e i costumi d'ogni pianta, a partire dal nome botanico (un'abitudine che aveva preso dalla madre, una veneziana allegra che non aveva niente delle "paturnie" dei Salgari).
Naturalmente trasformava platani e pioppi in baniàn e paletuvieri, invitando i bambini a non farsi sorprendere da tigri, elefanti e bisonti che si nascondevano nella folta vegetazione. Lui l'esotico andava a scovarlo in biblioteca. Riempiva centinaia di schede con le caratteristiche di piante e animali, poi lasciava cadere quei nomi magici nel racconto, quasi con noncuranza, coinvolgendo il lettore nella magia di suoni incantatori. Chi può sottrarsi al profumo esaltante del mussenda, dello sciambaga, del nagatampo? Chi può negare il sapore indicibile della polpa del duriòn?
Non importa che l'autore storpi o adatti secondo le sue convenienze i nomi delle specie esotiche che descrive: l'apertura di credito che il lettore gli concede è totale, un atto di complicità.
Nei suoi romanzi la scintilla dell'emozione scatta dall'incontro tra l'enfasi retorica e teatrale dei dialoghi con l'accuratezza della ricostruzione ambientale, che in fondo è la vera protagonista dei romanzi.
La Natura salgariana è costretta obbedire al segno della dismisura: tutto è fuori scala, gigantesco, immane, il più delle volte minaccioso. Vi sono piante che avvelenano solo a dormici sotto. Tutto nasce, probabilmente, con l'emozione suscitata nel Salgari diciottenne da una piccola mostra che accompagna il Congresso geografico internazionale di Venezia.
Nel padiglione delle Indie olandesi il ragazzo si incanta davanti a una riproduzione della Rafflesia gigante: il fiore più grande e più brutto del mondo, un parassita rossiccio con le picchiettature bianche della velenosissima Amanita, un grosso imbuto come quello dei fonografi, senza foglie né radici, che puzza di carne avariata, impiega mesi per giungere a maturazione e poi appassisce in capo a una settimana. Un rebus, per i botanici, che non sapevano bene in quale famiglia iscriverla. Così per lui sono rimaste le piante: divinità imprevedibili, da avvicinare con deferente e sospettoso rispetto, sempre pronte a tendere agguati, rare volte soccorrevoli e protettive.
Uomo dell'Ottocento che non si lascia abbagliare dagli idoli della falsa modernità, ama e rispetta la Natura molto più degli esseri umani.
Il Progresso non lo attira e non lo esalta: a lui interessano le virtù basilari, il coraggio, la lealtà, la fedeltà, non i nuovi marchingegni, di cui fiuta la pericolosità. Dice che quella dell'automobile è una tecnologia rozza, puzzolente, rumorosa, pericolosa: non arriverà a fine secolo. Allora meglio l'elettricità, che almeno è silenziosa: ma anche quella ci renderà nevrotici, ansiosi: elettrici, appunto. Non gli piacciono i padiglioni smisurati della grande Esposizione Universale che si stanno costruendo al Valentino per festeggiare cinquant'anni dell'Unità d'Italia. Si suicida proprio due giorni prima della solenne inaugurazione.
Per aprirsi il ventre e poi le vene del collo con un rasoio, come un samurai, sceglie un ambiente che è il contrario della città: il bosco della collina di Val San Martino dove andava in pic-nic con i bambini. Cento anni dopo, sarebbe stato un ambientalista accanito e arrabbiato, un Mauro Corona senza canottiera e bandana. Altro che il solitario dimenticato della Madonna del Pilone: sarebbe diventato un eroe mediatico, le tv avrebbero fatto a gara per ospitarlo. Me lo vedo duettare con Licia Colò, con Fabio Fazio, arringare le folle con Beppe Grillo. Ma lo preferisco così, a passeggio sulle rive del fiume, prigioniero dei mondi avventurosi che lui stesso aveva creato, ma libero nella forza trascinante della sua scrittura.
Ernesto Ferrero
Premio Strega 2000 con N. e direttore del Salone del libro di Torino, ha dedicato a Emilio Salgari un romanzo biografico, Disegnare il vento. L'ultimo viaggio del capitano Salgari, uscito il 5 aprile da Einaudi in occasione del centenario della scomparsa dello scrittore veron