Il rispetto che gli Innu hanno sempre mostrato per i caribù è grande. Da tempi immemorabili, questi cervidi boreali hanno fornito loro tutto ciò di cui avevano bisogno, per sopravvivere nella boscaglia: nutrimenti, abiti, attrezzi, materiali e giochi. I cacciatori dicono: «Senza caribù, non c'è caribù». Il loro tutto. In altre parole, senza caribù non esistono le racchette da neve, per muoversi in inverno; gli umani resterebbero esposti alla carestia e alla morte. Essi infatti potrebbero forse sapere dove trovarli, ma senza poterli raggiungere, non disponendo appunto di strumenti per spostarsi costruiti con quegli animali. L'associazione fra gli Innu e i caribù è così forte che l'intera società è modellata in relazione ad essa. Territorio, storia, spiritualità, sapere materiale, rapporti con le altre culture: il legame si fa fondamentale. I cacciatori innu conoscono molto bene il caribù, fino a certe sue più piccole abitudini: e questa è la loro salvezza. Ad ogni fase della vita delle renne, gli Innu assegnano un nome specifico. È un modo per considerarle e riconoscerle importanti.
Basta questo per capire che esistono popoli che – meglio e più di noi – applicano ogni giorno i principi ecologici, dell'interazione con gli ecosistemi, della protezione degli ambienti naturali, al fine di garantire l'esistenza e lo sviluppo reciproci. I concetti opposti di sfruttamento delle risorse, approcci indifferenti assai spesso adottati, finiscono invece per degradare la base del funzionamento degli organismi viventi sul pianeta, fra cui tutti ci troviamo. Gli incombenti cambiamenti climatici costituiscono un problema di cui non riusciamo ancora a gestire la consapevolezza, per non dire delle conseguenze. Ecco che allora la storia degli Innu ci riguarda direttamente. È per questo che oggi la raccontiamo parlando non del Canada, ma della Nitassinan. Non dei confini amministrativi, ma della natura che segue leggi proprie.
Progresso presunto con una pesante eredità: per gli Innu un dramma, per noi tutti un monito
Avendo sperimentato che la cosiddetta modernità danneggia ambienti e persone, gli Innu hanno molto da insegnarci. Il cambiamento climatico, in quest'area del grande Nord americano, già oggi si avverte più che altrove. Anche ciò che chiamano progresso ha lasciato la sua pesante eredità. Gli Innu sono poco meno di ventimila individui e risiedono nella penisola del Labrador-Québec, in una patria – appunto definita Nitassinan – ampia e integrata perfettamente con le loro abitudini di vita, ricca di abeti, fiumi, laghi e montagne.
Gestire i fenomeni legati allo sviluppo comunemente inteso, in senso economico e sociale, culturale e fisico, nel caso dei popoli indigeni è un grave problema, poiché quasi sempre si accompagna allo sfruttamento del territorio, che per le tribù che vivono ancora a stretto contatto con l'ambiente naturale si traduce in un suicidio – quando non omicidio – collettivo. Ne sono una prova le conseguenze devastanti che, con varie modalità, queste comunità subiscono: intervenire trasformando le aree dove i loro sistemi sociali si sono organizzati nel tempo, in perfetta sintonia con i luoghi che offrono cibo, riparo e benessere, è infatti un ostacolo molto serio alla loro sopravvivenza.
Osserviamo il Labrador-Québec, per esempio. Qui gli Innu hanno vissuto da cacciatori nomadi fino alla seconda metà del XX secolo, quando il moderno colonialismo – sedicente civilizzazione da parte del governo canadese, conversione alla religione cattolica da parte delle organizzazioni ecclesiastiche – ha costretto di fatto le loro comunità ad abbandonare lo stile di vita in natura per insediarsi in villaggi strutturati dove vivere come gli eurocanadesi, ma in maniera in effetti molto più sciatta e decadente, dove le malattie, l'alcolismo e le violenze private sono diventati una tragica abitudine. Andare a scuola e al catechismo, trasformare a poco a poco le relazioni familiari e sociali, introducendo valori non propri, ha fatto perdere agli Innu identità e forza. Per non parlare dei continui – orribili – ritrovamenti di resti di bambini indigeni non lontano dalle ex-scuole residenziali, dove operavano funzionari incaricati di provare in qualche modo a riprogrammare – per così dire – le nuove generazioni, per ottenere futuri cittadini conformati alla società dominante. Ovviamente provocando sofferenze e traumi profondi nei sopravvissuti, tramandati oggi nei loro familiari discendenti. L'obiettivo di tutto questo si è ben presto rivelato, pure in uno Stato democratico e civile come il Canada: liberare le distese di quel territorio così ricco di risorse naturali dai loro abitanti ancestrali, per sfruttarle con varie speculazioni economiche.
Sopravvivere sotto i rigori del clima, spostarsi in slitta, stare in salute: la società in equilibrio
Decenni fa, non molti in realtà, per la maggior parte dell'anno piccoli gruppi di famiglie innu si spostavano in quegli ampi spazi trascinando i loro oggetti personali sulle slitte, attraversando i fiumi ghiacciati per inoltrarsi nella foresta e cacciare, perfettamente autosufficienti a resistere a quelle temperature e a sopravvivere in salute; nella tarda primavera, con le canoe navigavano per pescare, commerciare, costruire e riparare gli arnesi, visitare amici e parenti. Oggi, quella innu è una minoranza allo sbando: diabete e tossicodipendenza sono le piaghe del benessere portato a forza dagli akanishau – in lingua innu, gente che parla inglese – e l'avvicendarsi di due culture così distanti ha portato le nuove generazioni a soffrire di forme di depressione e autolesionismo. L'agonia di questo popolo è drammaticamente evidente: il tasso di suicidi è il più alto al mondo e gli adolescenti sono soliti sniffare benzina per stordirsi. Da questo punto di vista, i danni dei cambiamenti climatici alla loro e nostra terra non hanno ancora dimostrato i loro effetti.
La riflessione più luminosa proviene da un detto innu: "La salvezza passerà attraverso la cultura". La cultura innu, beninteso. Forse la loro comunità ha capito che i problemi della società sono connessi alla perdita di radici e dei valori ancestrali, e per ristabilire il legame dei giovani con la Nitassinan – il territorio che gli avi abitarono – c'è chi ha intrapreso una marcia lunga quattromila chilometri, dapprima in solitaria, equipaggiato di un'accetta, un fornellino, una slitta e una tenda, poi a poco a poco condividendo le tappe con una quarantina di altri Innu. La marcia di Andrew, denominata "The Young Innu Cultural Health Walk", testimonia che la taiga, la tundra e le lande rocciose li hanno sostenuti per millenni e nessuno soffriva di diabete, come accade di frequente oggi: «Quando i nostri nonni vivevano nel nutshimit e potevano cacciare e mangiare cibi sani e naturali, il diabete non esisteva. Oggi solo pochissime famiglie della mia comunità escono nel territorio. Mangiano il cibo dei bianchi – cibo in scatola comprato nei negozi – e bevono alcol. Mi fa male pensarci. Con la mia impresa voglio dimostrare alla mia gente che il nostro stile di vita a contatto con la nostra terra è sano».
Per approfondimenti:
www.naturequebec.org - Dal 1981, questo organismo nazionale senza scopo di lucro definisce progetti di interesse in materia di biodiversità, foreste, energia, clima e ambiente urbano.
www.nametauinnu.ca - Nametau Innu è un museo virtuale dedicato alla nazione millenaria degli Innu, a cura del Musée Régional de la Côte-Nord nato in quella parte di Canada: offre innumerevoli notizie e notevoli storie sulla cultura e sulle abitudini che nella comunità vengono ancora oggi tramandate alle nuove generazioni. Nelle lingue francese e inglese.
www.survival.it/galleria/innu - Dall'associazione Survival International, che da decenni lotta per la tutela dei popoli indigeni del pianeta, una galleria di immagini e citazioni degne di nota che definiscono la cultura e la storia degli Innu.