Ai confini dell'impercettibile c'è un prato di soffioni trasparenti, gracili vittime della più lieve folata di vento Sono i miei pensieri che si spandono sull'inconsistenza delle cose immaginate... Anonimo
La terra prima silente, è ora brulicante di vita e di risvegli. L'acqua s'insinua tra i prati, ammantati da un nuovo e soffice velluto verde, chiazzato di giallo a perdita d'occhio. Eccolo, il tarassaco. Lo sguardo si posa sulle solari corolle che fanno capolino, intercalate dalle infruttescenze, i "soffioni", delicate sfere piumose composte da decine di frutti, detti acheni, dal caratteristico pappo: un ciuffo di peli bianchi, originatosi dal calice modificato, che, agendo come un paracadute, agevola col vento la dispersione del seme. La pioggia di aprile li arruffa, ne fa bianchi pulcini bagnati.
Ricordi di infanzia affiorano alla mente, quando la favola faceva parte della vita e, spensierati, si correva sui gialli prati a cercarlo. Si soffiava con tutto il fiato nei polmoni e i peli del pappo piumoso si staccavano, facendosi trasportare dal vento come candide bolle di sapone. Restavamo ad osservare rapiti quella nuvola disperdersi nel sole. Poi i semi cadevano da qualche parte, svanivano alla nostra vista, sarebbero un giorno diventati una piantina, un bocciolo verde, un largo fiore giallo, un altro soffione... ma già a noi non interessava più: sdraiati sul prato fiorito, succhiavamo la cannuccia dello stelo, gustandone quel sapore amaro e cercando di riconoscere animali e oggetti nelle nubi che cambiavano forma nel cielo azzurro. Anziché ascoltare il bollettino meteo, preferivamo soffiare i leggiadri piumini. Se volavano verso l'alto era presagio di bel tempo, al contrario se planavano verso il suolo. Allo stesso modo affidavamo al nostro oracolo di primavera i patemi d'amore. Solo se i pappi volavano via tutti, il sentimento sarebbe stato corrisposto, altrimenti, per vedere esauditi i nostri desideri si sarebbe dovuto aspettare alcuni mesi o anni, tanti quanti i piumini rimasti sul ricettacolo!
Il Taraxacum gr. officinale Weber (famiglia delle Asteracee) è una specie "camaleontica", sia per il suo polimorfismo, in quanto non viene classificata come una specie unitaria, ma come un aggregato comprendente numerose "stirpi", sia per i molteplici nomi volgari con cui è conosciuto. Cicoria dei prati, dente di leone, soffione, orologio del pastore, girasole e molti altri ancora. Molteplici anche le interpretazioni etimologiche. Il nome del genere, secondo alcuni, deriva dal greco taraxos (disordine, squilibrio) e da akos (rimedio): si deduce così la vocazione terapeutica attribuita alla pianta per i "disordini" metabolici a livello epatobiliare e renale. D'altronde, secondo la Dottrina della Segnatura, il colore giallo dei fiori e il sapore amaro erano caratteristiche assimilabili a quelle della bile e quindi la pianta era considerata idonea per le patologie del fegato. Ancor più curiosa l'interpretazione simbolica dell'erboristeria rinascimentale, di tradizione alchemica-astrologica, secondo la quale la pianta era governata dal pianeta Giove e proprio come Giove, re degli dei, metteva ordine nel suo Olimpo, il tarassaco farebbe lo stesso "nell'universo corporale", depurandolo dalle impurità. Indiscusse pure le sue proprietà diuretiche. Non per niente uno dei suoi tanti nomi volgari è pisciacane, piscialetto (dal francese pissenlit), nome in voga soprattutto nel XVII secolo e tuttora utilizzato in vari dialetti italiani. Per cogliere il fiore dal lungo stelo, dobbiamo affondare le dita tra le foglie, basali, lunghe e frastagliate, dall'inconfondibile gusto amaro. I fiori sono raccolti in capolini di colore giallo dorato, con ligule pendenti che si ripiegano alla sera, o con il cattivo tempo, sul centro del capolino. Anche le api li apprezzano, dando luogo al caratteristico miele ambrato, dall'aroma intenso e profumato e dal sapore non dolce, che regolarizza le funzioni intestinali, adatto anche ai diabetici e per chi soffre d'acne. Ogni parte di questa specie è commestibile e la sua raccolta è una delle poche tradizioni dure a morire: quando non è ancora fiorita, si raccolgono le teneri foglie dentellate, dal sapore piacevolmente amaro e aromatico, che finiscono sulla tavola in ottime insalate, magari assieme al classico uovo sodo. Bollite, entrano a far parte di amarognole minestre, adatte per espellere le tossine e l'eccesso di grassi del lungo inverno. Infatti, le sostanze amare contenute, come la taraxacina, aumentano la produzione di bile e ne stimolano l'espulsione. Ecco giustificato l'uso popolare come ottimo depurativo epatico, per stimolare il metabolismo e diminuire il colesterolo, ma giova anche al diabete e alle malattie del ricambio, in quanto svolge un effetto disintossicante. Il tarassaco può essere considerato anche un'ottima verdura commestibile, dal valore nutrizionale elevatissimo, ricca di sali minerali (ferro e potassio), di vitamine, come la C, D e le vitamine del gruppo B. È anche ricchissimo di carotenoidi (pro-vitamina A), ancor più delle carote. In associazione con gli altri principi attivi contenuti nella pianta, esercitano un'azione antinfiammatoria e antiossidante nei confronti dei radicali liberi e di prevenzione delle patologie degenerative. Inoltre contiene inulina, sostanza zuccherina di facile assimilazione ed elevata compatibilità, che sostiene le attività metaboliche senza provocare alterazioni dell'insulina e, dunque, scompensi glicemici. In cucina con i fiori si preparano delicate frittelle e si confeziona uno sciroppo, usato nella nostra tradizione per la tosse e molto gradito ai bambini per il suo gusto delicato. Sempre i fiori, ma ancora in boccio, possono essere raccolti e messi sotto sale o sott'aceto, sostituendo i capperi, mentre la radice, considerata diuretica e rinfrescante, una volta bollita può essere mangiata in insalata. Una volta i nostri nonni la tostavano e la impiegavano persino come bevanda surrogata del caffè, anche se, al contrario di quest'ultimo, sembra avesse un effetto sedativo. Nella medicina popolare piemontese l'infuso delle foglie veniva consigliato, oltre che come depurativo del fegato, per le febbri, tanto acute quanto croniche, per i calcoli renali e del fegato, l'itterizia, la gotta e per stimolare l'intestino. L'infuso dei soli fiori invece, veniva usato per i reumatismi. Piuttosto praticato anche l'uso esterno: per schiarire le lentiggini ci si lavava il viso più volte al dì con l'infuso dei fiori, mentre in caso di varici si immergevano le gambe nell'infuso. Essendo una specie diffusa anche in molti altri Paesi del mondo è nota a scopo terapeutico anche in altre culture tradizionali. In Cina ad esempio, si prescriveva per trattare l'epatite, problemi del seno (tumori, infiammazioni, scarsità di latte, ecc.), appendicite, disturbi digestivi e persino per rendere luminosa la pelle e limpidi gli occhi. Tra l'altro, pure il famoso erborista inglese Culpeper lo raccomandava, nel 1600, per "ogni cattiva disposizione del corpo" e per "vedere lontano senza bisogno d'occhiali". Affermazioni, forse, spiegabili grazie a recenti studi secondo i quali le foglie, ricche di sostanze come la zeaxantina e la luteina, sarebbero utili per prevenire degenerazioni senili oculari come la cataratta.
La prossima volta che scorgiamo nei prati questa umile e calpestata "erbaccia" , consideriamola come una preziosa alleata per la salute o, più semplicemente, come dicevano gli antichi, per mettere "ordine" nel nostro organismo.