Oggi, in luogo dei misteriosi e vagamente inquietanti uliveti del mio tempo di bambino e adolescente, in luogo dei tronchi contorti, coperti di muschi e licheni, bucherellati di anfratti dove andavano a rintanarsi le lucertole, in luogo dei baldacchini di rami carichi di olive nere e di uccelli, quel che si presenta alla vista è un enorme, un monotono, un interminabile campo di granturco ibrido, tutto della stessa altezza, forse con lo stesso numero di foglie nelle spighe, e un domani forse con la stessa disposizione e lo stesso numero di pannocchie, e ciascuna pannocchia forse con lo stesso numero di chicchi
(José Saramago)
Gli anziani che hanno a cuore le antiche tradizioni del Piemonte raccontano della polenta che una volta si faceva con il mais a otto file di Antignano, antica varietà autoctona del territorio delle colline Alfieri in provincia di Asti. Le spighe hanno la caratteristica di avere otto file di chicchi di colore rosso intenso con un aspetto vitreo, e particolarità organolettiche uniche grazie alla vicinanza del fiume Tanaro. Questo mais è detto "Melia du Re" perché era particolarmente apprezzato da Vittorio Emanuele II, grande consumatore di selvaggina e di polenta. E' una varietà pregiata che veniva coltivata solo sulle colline dell'Astigiano e del Roero, e che dava una farina dall'odore delicato, aroma intenso e sapore gradevole. Il Molino Rosso di Corneliano d'Alba ne mantiene viva la tradizione, grazie ad alcuni agricoltori sensibili alla qualità che ne coltivano piccoli appezzamenti senza badare al reddito. Dopo aver lasciato asciugare le spighe al sole dell'autunno, i chicchi macinati a pietra come ai vecchi tempi permettono ai ristoratori della zona di preparare il "potàge", piatto tipico di questi posti. Un tempo era una pietanza povera semiliquida, in cui si intingeva la polenta. Era fatto con quel che la natura offriva: verdure dell'orto, erbe spontanee raccolte in campagna, funghi di stagione: mai carne, perchè la povertà era tanta, al suo posto uova sode, e merluzzo nei giorni di astinenza.
Mentre le altre piante domestiche riescono in qualche modo a riprodursi senza assistenza, il mais, con la sua spiga così particolare, nel corso della sua evoluzione si è gettato completamente tra le braccia del genere umano. A non poche società del passato l'adorazione del mais è parsa cosa giusta, ma forse dovrebbe essere l'esatto opposto: per la pianta siamo noi gli esseri indispensabili.
(Michael Pollan)
Pianta erbacea annuale della famiglia delle graminacee, il mais (Zea mays), detto anche granoturco, accompagna l'uomo dalla preistoria: fu addomesticato dalle popolazioni indigene in Messico centrale 10.000 anni fa ed è diventato uno dei nostri più importanti cereali, largamente coltivato sia nelle regioni tropicali che in quelle temperate, in quest'ultimo caso a ciclo primavera-estate.
Base alimentare tradizionale delle popolazioni dell'America Latina e di alcune regioni dell'Europa e del Nordamerica, fu Cristoforo Colombo a introdurre il mais in Spagna nel 1493 , di ritorno dal primo viaggio nelle Indie Occidentali. In Italia arrivò introno al 1530, prima in Veneto, dove ebbe un successo straordinario, poi nel vicereame spagnolo di Napoli, da cui si diffuse nel Lazio e nell'intero stato della Chiesa.
Oggi nelle regioni temperate è principalmente destinato all'alimentazione degli animali domestici, sotto forma di granella, farine o altri mangimi, oppure come insilato, generalmente raccolto alla maturazione cerosa. Può essere oggetto di trasformazioni industriali per l'estrazione di olio e di amido, o destinato alla fermentazione, per produrre, attraverso la distillazione, bevande alcooliche o bioetanolo a scopi energetici.
Eppure il granoturco
che ha scelto di esser giallo
non si domanda niente
non ricorda.
Chissà se poi continua
a presentarsi giallo
per essere fedele
a chi lo guarda.
(Giorgio Gaber)
L'infiorescenza femminile, che porta le cariossidi, si chiama correttamente spadice, ma viene più spesso impropriamente chiamata "pannocchia", mentre la pannocchia propriamente detta è l'infiorescenza maschile posta sulla cima del fusto (stocco) della pianta, che invece viene a volte chiamata impropriamente "spiga" per il suo aspetto. Le cariossidi sono fissate al tutolo e il tutolo è fissato alla pianta.
Il suo nome è di origine spagnola, maíz, a sua volta d'origine caraibica: nel centro del Messico la pianta rappresentava l'ingrediente base della cucina preispanica. Il termine "granoturco" o "granturco" con cui viene comunemente chiamato, non ha a che fare con l'Impero ottomano ma deriva dall'usanza del Cinquecento, di chiamare "turco" tutto quello che proveniva da paesi esotici non cristiani".
Il primo a scrivere del mais fu Pieranderea Mattioli nel 1570, per spiegare che quel cereale non era di origine asiatica come suggeriva il nome "granturco". Diventò presto cibo dei poveri: grazie alla sua alta produttività i contadini preferivano vendere il frumento, che sul mercato valeva il doppio, ed usare il granturco in famiglia, nonostante non fosse un alimento altrettanto equilibrato. Non si sapeva ancora che il consumo quotidiano di polenta, senza essere accompagnata da altri cibi, avrebbe provocato una malattia, la pellagra, dovuta alla carenza di vitamina PP e caratterizzata da disturbi a carico dell'apparato digerente, da stati confusionali e da lesioni cutanee. In America centrale questo problema non esisteva, perché le focacce rotonde di mais erano accompagnate da peperoni, fagioli, peperoncino rosso, pesce, granchi, rettili e addirittura grossi vermi, che contenevano la vitamina. La pellagra fu debellata in Occidente quando, scoperta quella carenza, si iniziò a combatterla accompagnando la polenta con formaggio, verdure poco cotte e baccalà.
Non solo polenta però: le paste di meliga, burrosi biscotti ancora più gustosti se preparati con gli antichi mais come l'Ottofile, il Pignoletto, l'Ostenga, il Nostrano dell'Isola, sono tra i dolci più tipici del Piemonte, diventati famosi ben oltre i confini regionali.
Gli ingredienti per prepararli:
50 g. farina di mais tipo fumetto (per pasticceria)
80 g. farina 00
100 g. farina di mais ottofile giallo integrale macinato a pietra
100 g. burro morbido
100 g. zucchero semolato (possibilmente extrafine)
60 g. tuorlo (3)
la punta di un cucchiaino di lievito per dolci
1 pizzico sale
scorza di mezzo limone grattugiata
1 o 2 cucchiai latte freddo se serve
1/2 bacca vaniglia (i semi)
La preparazione:
montare il burro tenuto fuori dal frigo almeno da due ore con lo zucchero, il sale, la vaniglia e la scorza del limone grattugiata. Quando la massa diventa biancastra unire uno alla volta i tuorli, poi le farine precedentemente mescolate con il lievito setacciato. Amalgamare velocemente ed unire poco latte, se serve, per ottenere un composto consistente ma morbido: si deve poter modellare con una sac a poche. Con l'aiuto di una spatola inserire l'impasto in una tasca da pasticcere munita di bocchetta a stella, formare le paste di meliga distanziandole un po' tra loro sulla leccarda da rivestita con carta da forno e metterle in frigorifero almeno 30 minuti, meglio ancora se per più tempo. Preriscaldare il forno statico a 160°/165° e infornare per 15-20 minuti. Trasferire sulla gratella, lasciare raffreddare e conservare i biscotti in una scatola di latta.