Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie. (Gabriele D'Annunzio)
Oggi non si usa più, ma se mai qualcuno volesse ricominciare a coltivare il gelso bianco (Morus alba) per allevare bachi da seta, è bene sappia che cosa aspettarsi da questo alberello robusto e generoso. E' originario della Cina e dell'India, dove da tempo immemorabile le sue foglie venivano fornite come alimento ai bruchi del Bombyx mori. Nel VI secolo venne introdotto a Costantinopoli, dopo che i monaci avevano portato dalla Cina i "semi" dei bachi da seta. Nell'VIII secolo venne acclimatato in Spagna, nel 1340 in Toscana, nel 1440 in Provenza, e fu poi l'agronomo e botanico francese Olivier de Serres che nel 1559 diede l'impulso alla sua coltivazione.
La raccolta delle foglie di gelso ha inizio alla metà di aprile e si fa di mattina, quando non c'è più rugiada. Le foglie, tenute al riparo dal sole e dalla pioggia, si conservano fresche per diversi giorni. Lo sfruttamento di un albero deve essere fatto ogni due anni. Per promuovere la crescita di nuovi rametti, va praticata ogni due o tre anni una potatura che si fa a giugno, tagliando i rami dopo averli privati delle foglie. Un gelso in piena efficienza, che abbia cioè oltre venti anni, produce ogni due anni 100-150 Kg di foglie, che significa una resa di 8-12 tonnellate di foglie per ettaro. Durante la loro prima e seconda età, i bruchi devono essere nutriti con foglie tritate, private delle nervature principali, poi possono essere alimentati con foglie intere. Si calcola che i bachi da seta provenienti da 25 grammi di uova (volgarmente dette "seme") consumino, durante i 25-40 giorni del loro allevamento, 800-830 chilogrammi di foglie nel corso di tre pasti durante le prime età, e di quattro pasti durante la quarta. Un lavoro non da poco dunque, dedicarsi alla bachicoltura in maniera artigianale seguendone tutte le fasi, ma la seta è pur sempre seta, e se ottenuta così, come si faceva una volta, non ha prezzo.
E' fa prendere iscorza d'uno albore c'ha nome «gelso»,
e è l'albore le cui foglie mangiano gli vermini che fanno la seta. (Marco Polo)
Rimangono pochi esemplari dell'epoca della bachicoltura: qualcuno è isolato nei campi, altri, sopravvissuti al boom edilizio che ha trasformato le cascine in villette, sono diventati protagonisti giganteschi di piccoli giardinetti. I gelsi bianchi (Morus alba) sono alberi capaci di raccontare la storia. Fino all'ultima guerra, praticamente ogni famiglia contadina della pianura e della collina piemontese ne aveva uno nell'aia, quando la produzione dei bachi da seta rappresentava la principale entrata del misero bilancio aziendale. Soprattutto in Val Padana venivano piantati boschetti di gelsi in ogni angolo adatto a far crescere un albero, risparmiando il terreno coltivabile. Per questo le vecchie piante che ancora si trovano lungo strade e viottoli, spesso sono in luoghi remoti e abbandonati, impervi e lontani.
Teodoro Costa, al secolo Doro, che nel Roero si prende cura del verde ai Piloni di Montà, racconta di quando le donne "portavano il seme a benedire il 25 aprile, giorno di San Marco, e poi a schiudere". Nella sua famiglia gli uomini fornivano le foglie di gelso e le donne lavoravano in casa per filare la seta. Il bozzolo veniva messo a bagno nell'acqua bollente perché non si bucasse, altrimenti la seta risultava tagliata. Univano dieci o dodici fili insieme e li torcevano prima di tesserli. Doro ricorda il rumore che facevano i bachi di notte mentre mangiavano le foglie, ininterrotto, e il filo sottile come la tela di un ragno. Aveva un paio di calze di seta tinte a mano, che gli permettevano di usare perché era sensibile alla lana. Racconti di altri tempi: quando gli si chiede la sua età, Doro risponde che fino a cinquanta li ha contati, ma che da una trentina d'anni non li conta più.
Il pettirosso sventagliò la coda,
spiccò il volo verso un gelso selvatico presso l'entrata del cimitero,
e ne frugò i rami in ansiosa ricerca di bacche.
(Marjorie Kinnan Rawlings)
Il gelso nero (Morus nigra), originario dell'Asia Minore e del Caucaso, fu portato in Europa solo un paio di secoli fa, per nutrire i bachi da seta prima che venisse introdotto il gelso bianco. Poi a ciascuno la sua specialità: ai bachi le foglie del gelso bianco, le cui bacche sono dolci ma meno attraenti, e a noi le more del gelso nero, squisite con la panna. Sono frutti privi di valore commerciale, troppo facilmente deperibili: vanno consumati appena colti oppure trasformati in sciroppi o gelatine. Gli uccelli ne sono ghiotti e, nonostante le disastrose macchie che provocano sui vestiti, che spingono le amministrazioni cittadine a scegliere ibridi senza frutti per le aree verdi pubbliche, vale la pena coltivare un gelso nel frutteto famigliare. Se si ha spazio e si opta per più di uno, è bene lasciare circa nove metri tra una pianta e l'altra, e poi tenere d'occhio la moltiplicazione spontanea, perché gli uccelli, mangiando le more, disseminano i semi a largo raggio. I gelsi sono piante rustiche, che possono crescere in qualsiasi terreno a pH neutro nelle zone a clima temperato: quelli neri hanno bisogno di più caldo.
potreste dire a questo gelso:
Sii sradicato e trapiantato nel mare,
ed esso vi ascolterebbe.
(Gesù,Vangelo secondo Luca)
Nella simbologia delle piante il gelso rappresenta il desiderio di amicizia, o anche un incontro inaspettato, dato che lo si trova in campagna nei luoghi più impensati. Si collega alla figura del vagabondo, forse perché alla sua ombra si fermavano i girovaghi per levarsi la fame con le more, oppure perché si trova qua e là, disperso per le campagne. La prima opera di misericordia, "dar da mangiare agli affamati" gli si addice, con una metafora facile da cogliere quando si osserva la miriade di insetti alati che vanno a cibarsi delle sostanze zuccherine dei suoi frutti.
Il suo legno un tempo era impiegato nella fabbricazione delle botti, che però duravano poco e si deterioravano nel tempo, rendendo difettoso il vino: il legno ha molto tannino, ma essendo leggero era apprezzato soprattutto per la costruzione di bigonce, mastelli, secchi e barili, che pesavano poco ed erano maneggevoli.
Ovidio ha immortalato i gelsi bianchi e neri in una leggenda, che narra di due giovani bellissimi di Babilonia, Piramo e Tisbe. Abitavano vicini, si erano innamorati e volevano sposarsi, ma i genitori posero il veto, oltre che alle nozze, anche ai loro incontri. Ovviamente continuarono a vedersi di nascosto, finché decisero di fuggire insieme. Si diedero appuntamento in campagna, sotto un gelso carico di more bianche, dove Tisbe, arrivata per prima, fu sorpresa da una leonessa che aveva appena predato un animale e aveva le fauci insanguinate. Tisbe fuggì in una grotta, ma perse il suo velo: la leonessa lo stracciò con i denti, sporcandolo di sangue, e quando Piramo arrivò suo posto, vedendo la scena e pensando che la sua bella fosse stata sbranata, per la disperazione si uccise con il pugnale. Il fiotto di sangue che uscì dal suo corpo irrorò le bacche bianche, che si tinsero di un cupo rosso. Quando Tisbe uscì dal suo nascondiglio e vide il suo amato morto, capì quello che era successo e si trafisse con lo stesso pugnale. Gli dei, impietositi, per ricordare questa infelice storia d'amore decisero che il colore delle bacche restasse nero per sempre. Un bel finale per noi pragmatici contemporanei, da celebrare con la ricetta di uno sciroppo preparato con questi antichi frutti poco calorici ma ricchi di principi nutritivi e antiossidanti. Per 600 grammi di succo estratto dalle more spremute servono 500 grammi di zucchero: si aggiunge il succo di un limone, si frulla e si mette sul fuoco per una ventina di minuti. Lo sciroppo ottenuto, imbottigliato e conservato all'ombra e al fresco, si presta a svariati deliziosi consumi, sia diluito in acqua come bevanda, che concentrato, per irrorare dolci e gelati.