Nei mesi di lockdown e post-lockdown, la biodiversità è diventata uno degli argomenti più trattati da media, politici, personalità religiose, giornalisti e opinionisti. Di colpo, la tutela della biodiversità, un tema complesso e fino a quel momento poco considerato, ha acquisito un'importanza strategica per la salvezza del pianeta, diventando centrale per gran parte dei leader mondiali: uno strumento fondamentale per contrastare il riscaldamento climatico e la crisi sanitaria.
Chi si occupa - per passione o per mestiere - di questi argomenti, ha nutrito quindi molte aspettative legate alla transizione/conversione ecologica prospettata come indispensabile per contrastare la crisi planetaria, ma, come si poteva immaginare, sono arrivate, puntuali, delusioni e frustrazioni. Certamente i problemi sono complessi, riguardano tutto il Pianeta e necessitano soluzioni concordate globalmente: inevitabili, quindi, ritardi, resistenze, conflitti e interessi contrapposti. Tuttavia, continuiamo a trovarci in una situazione di emergenza (dalla Treccani "particolare condizione di cose, momento critico, che richiede un intervento immediato") e non possiamo più permetterci di perdere tempo, energie e risorse su azioni e scelte che non siano efficaci e realizzabili in un arco temporale ridotto.
Piantare mille miliardi di alberi non è una soluzione
In questo quadro complesso, negli ultimi mesi è diventata virale la campagna promossa anche da Stefano Mancuso - botanico, accademico e saggista italiano - che prevede come soluzione immediata per ridurre il riscaldamento globale, la messa a dimora di mille miliardi di alberi. Il principio è molto semplice: "Per tirar via l'anidride carbonica dall'atmosfera dobbiamo usare l'unica macchina in grado di assorbirla: gli alberi. Ne servono 1000 miliardi e non è un numero iperbolico: a noi italiani ne spetterebbero due miliardi...". La campagna ha avuto un grande successo mediatico e, come tutte le soluzioni affascinanti (piantare alberi è qualcosa che piace a tutti) e semplicistiche, ha fatto presa su gran parte dell'opinione pubblica, dei mass media e dei politici, tanto che all'ultima Cop26 di Glasgow l'indicazione di piantare alberi è stato uno dei temi al centro del dibattito.
Ma per chi è consapevole della complessità delle problematiche, ecologiche, territoriali e socio-economiche connesse alla crisi climatica e al suo contrasto, questa campagna appare non tanto la soluzione quanto una trovata 'd'effetto' con scarse o nulle possibilità di realizzazione e che, anzi, potrebbe determinare danni significativi alla biodiversità. Partiamo da una considerazione.
Il patrimonio forestale italiano è in espansione
A livello planetario la deforestazione è senza dubbio un gravissimo problema per la salvaguardia della biodiversità. L'eliminazione di enormi superfici boscate nella fascia amazzonica e tropicale contribuisce in maniera significativa al riscaldamento climatico ed è probabilmente una delle cause della crisi pandemica a livello planetario. Ma se consideriamo il territorio italiano, non si può sostenere che sia in atto una riduzione del patrimonio forestale, anzi, le superfici boscate sono sempre più ampie. Nel quinquennio 2015-2020 le foreste italiane hanno continuato a espandersi, guadagnando 270mila ettari con un incremento del 2,9%. Negli ultimi trent'anni, l'incremento è stato del 25% e negli ultimi 80 addirittura del 75% (fonte: Global Forest Resources Assessment, FRA 2020).
Quindi, da un certo punto di vista, sul nostro territorio, l'incremento della superficie forestale sta già garantendo l'obiettivo di avere sempre più alberi per assorbire CO2. Anzi, in molte aree montane e collinari, soggette dal secondo Dopoguerra a spopolamento e abbandono di colture agricole e pascoli, sarebbe necessario intervenire riducendo la copertura forestale per garantire la sopravvivenza di ambienti aperti quali: praterie, radure, brughiere e aree umide, che sono purtroppo in fase di regressione. Si tratta infatti di habitat fondamentali per la sopravvivenza di molte specie animali e vegetali la cui esistenza è legata all'azione dell'uomo, direttamente e indirettamente, ad esempio tramite il pascolo da parte degli animali domestici (bovini e ovini in particolare).
Ecco perché, in un contesto di questo tipo, risultano paradossali e fuorvianti i consigli di: "Piantare quello che vi pare e dove vi pare!", come affermato dal famoso botanico. Ma vediamo insieme il perché.
Perchè è sbagliato piantare quello che ci pare
Quando si piantano degli alberi è importante scegliere, e bene, cosa piantare: l'individuazione della specie è infatti fondamentale, che si tratti di specie autoctone o no, utilizzando la massima cautela nei confronti delle specie esotiche invasive.
Iniziamo da queste ultime: è ormai condiviso a livello mondiale che l'introduzione e la diffusione delle specie esotiche invasive sia una delle principali cause della perdita di biodiversità (oltre ai danni economici e alla salute umana su cui influiscono molte di queste specie): regolamenti dell'Unione Europea, normative nazionali e regionali ne vietano l'introduzione e la diffusione. Si potrebbe pensare che questa sia un'ovvietà, purtroppo invece da quando è stato lanciato lo slogan: "Piantiamo alberi per salvare il Pianeta", si sono moltiplicate le campagne pubblicitarie di alcuni produttori di piante esotiche che si sono sentiti legittimati a diffondere specie invasive per la loro capacità di attecchimento e di resistenza agli stress ambientali rispetto a quelle autoctone, senza far cenno agli impatti significativi nei territori di introduzione.
Attenzione alle piante esotiche invasive!
E' il caso per esempio della Paulownia tomentosa, compresa nelle Black List delle specie esotiche vegetali invasive della Regione Piemonte, sempre più diffusa sul territorio piemontese, commercializzata e fortemente pubblicizzata da alcune aziende private: la forza di persuasione è spesso molto forte anche nei confronti delle amministrazioni locali, sensibili agli slogan della Paulownia come specie ideale per l'assorbimento della CO2, resistente agli stress ambientali e che, proprio perché esotica, poco bisognosa di manutenzione.
La scarsa disponibilità di piante autoctone dei vivai
Passando invece alle specie arboree autoctone, un aspetto molto critico è legato alla disponibilità nei vivai italiani di materiale vegetale, specialmente se di provenienza locale. Dall'ultima stima sulla capacità produttiva del sistema vivaistico forestale italiano (RAF 2020) risulta un dato inferiore a 5 milioni/anno di piantine di specie autoctone. Si rischia perciò di ripetere quanto accaduto con l'applicazione del Reg.CEE 2080/1992, quando il sistema vivaistico italiano, per l'impossibilità di rispondere adeguatamente alla domanda massiccia e improvvisa di materiali forestali di moltiplicazione di specie autoctone (si può stimare una quantità di 50 milioni di piantine per i quasi 100.000 ettari di impianti realizzati in circa 7 anni, tra il 1995 e il 2001), fu costretto a far ricorso a materiale vegetale in buona parte di provenienza estera, con tutti i problemi di adattamento alla stazione, inquinamento genetico e minor sostenibilità connessi a tale scelta.
Quindi, in questo momento storico e di emergenza ambientale, è fondamentale porsi obiettivi efficaci e raggiungibili. A tale proposito, la messa a dimora di centinaia di milioni di esemplari in breve tempo non è sostenibile dal nostro sistema vivaistico, il quale, anche se venisse incentivato e ampliato, non potrebbe rispondere in breve tempo a una richiesta così sproporzionata.
Gli alberi hanno bisogno di cure e di spazio
Bisogna inoltre tenere conto di altri due elementi, spesso dimenticati da chi pensa che sia sufficiente piantare alberi per la salvezza del Pianeta:
a) un albero non è qualcosa di artificiale, che possiamo abbandonare una volta messo a dimora: al contrario necessita di cure per anni, a partire dal contenimento della vegetazione erbacea e arbustiva (specie esotiche comprese) che potrebbe soffocarlo nelle prime fasi successive all'impianto;
b) un albero per poter crescere e svolgere le funzioni ecosistemiche indispensabili all'uomo ha bisogno di adeguato spazio: per specie autoctone di prima o seconda grandezza (come la Farnia, la classica quercia di pianura, ma anche i tigli, il Ciliegio selvatico e i frassini) ciò significa, a 20-30 anni di età, avere a disposizione circa 100 metri quadrati per pianta, se si vuole che la capacità di assorbimento di CO2 e di riduzione degli inquinanti, di ombreggiamento e riduzione delle "isole di calore" possa svilupparsi con piena efficacia. Non serve essere dei matematici per calcolare quanta superficie, soprattutto agricola, sia necessaria per mettere a dimora, solo in Italia, 100 o 1000 milioni di alberi collocati ad adeguata distanza. E in ogni caso sarebbe sostenibile e proponibile riconvertire a bosco tutti i terreni coltivati a cereali (frumento, mais, riso) in Italia per importare ancora più dal Sud del mondo alimenti prodotti nei campi e nei pascoli sottratti alle foreste?
Perchè è sbagliato piantare dove ci pare
Abbiamo già accennato che in alcuni ambienti (montagna e collina) sarebbe necessario e urgente, anzichè che la messa a dimora di nuovi alberi, il ripristino di superfici aperte, intervento peraltro previsto e finanziato da norme e programmi UE (Direttiva Habitat, progetti LIFE) e nazionali in materia di tutela e conservazione della biodiversità. In altri ambienti, come quelli planiziali caratterizzati dall'agricoltura intensiva e quasi privi di alberi, sarebbe invece importante intervenire ricreando siepi, filari ed aree boscate.
Insomma, piantiamo alberi ma valutando bene in quale contesto e in quali luoghi, utilizzando specie adatte alle condizioni locali (clima, suolo, morfologia, vegetazione potenziale) in modo che si contribuisca alla tutela e al miglioramento della biodiversità. Un esempio sono gli interventi di creazione di nuovi ecosistemi forestali in cui non ci si limita a piantare alberi, ma si creano i presupposti per sviluppare habitat forestali quali boschi umidi o fasce boscate ripariali, se non veri e propri corridoi ecologici in aree di pianura degradate e frammentate dal punto di vista naturalistico (si veda il progetto del bosco condiviso del Parco del Po Piemontese). Così come la realizzazione di foreste urbane e peri urbane o ampie aree verdi cittadine, dove la messa a dimora di alberi contribuirebbe alla riduzione delle isole di calore e alla mitigazione dell'inquinamento atmosferico. Ovviamente rispettando il vincolo di non piantare specie esotiche invasive e di considerare i costi e i tempi di manutenzione delle piantagioni.
Piantare alberi, ma in modo consapevole!
Piantare alberi è un'azione di per sé positiva, importante e che dà soddisfazione a chi la realizza. Ma pensare di poter piantare 1000 miliardi di alberi nel Mondo e 2 miliardi in Italia appare un'azione irrealizzabile, estremamente costosa e che comunque non potrà apportare nel breve periodo un significativo contributo alla lotta al cambiamento climatico. Inoltre rischia di diventare un alibi per chi, governanti e cittadini, non sia disponibile a un cambiamento nelle politiche e nelle abitudini (trasporti, energia, alimentazione, uso di materiali a forte impatto ambientale come la plastica), che davvero stanno determinando il riscaldamento globale e la crisi ambientale, e potrebbe rivelarsi un semplice greenwashing per aziende e lobby (energia, industria, ecc.) non interessate a ridurre l'uso delle fonti fossili con le relative emissioni inquinanti.
Quindi piantiamo pure alberi, ma non facciamolo a caso, in fretta e male!
Sarebbe invece indispensabile:
- concedere tempo e spazio al sistema vivaistico italiano (pubblico e privato) se, con l'obiettivo di tutelare e migliorare la biodiversità, si vogliono utilizzare piante di specie autoctone di provenienza locale;
- basarsi su specifiche conoscenze tecniche (caratteristiche della stazione di impianto, esigenze ecologiche, colturali e potenzialità economiche delle specie arboree, tecniche di progettazione, realizzazione e gestione delle piantagioni);
- partecipare, se possibile, ad azioni coordinate: le uniche che possono davvero garantire la creazione di foreste periurbane e la ricostituzione dei corridoi ecologici in pianura.
* Lorenzo Camoriano, forestale, è funzionario del settore Foreste della Regione Piemonte
** Matteo Massara, naturalista, è funzionario del settore Biodiversità e Aree naturali della Regione Piemonte