Un tempo la necessità spingeva l'uomo a nutrirsi spesso di radici, foglie e fiori raccolti da piante selvatiche commestibili. Oggi è la curiosità, la voglia di riscoprire emozioni arcane, di sperimentare la sensazione ineguagliabile di una simbiosi con la Natura insieme al desiderio e al bisogno di cibi e valori genuini.
Pratica definita "Fitoalimurgia" e che in primavera per alcuni diventa quasi uno sport. E, per chi è in cerca di raffinatezze culinarie, un'occasione per stupire e conquistare anche i palati più esigenti. Tant'è che pur essendo "gusti di una volta", oggi anche molti ristoranti di lusso propongono menù a base di sole erbe selvatiche.
Come il "barbabuch" come viene spesso chiamato in piemontese il Tragopogon arvensis (Asteracee), pianta erbacea perenne, che in molte valli del Piemonte rappresenta un vero e proprio culto gastronomico, anche semplicemente saltato in padella con burro e toma di montagna.
In primavera si usano a scopo alimentare i giovani germogli mentre le radici si raccolgono anche in autunno; lessate o in decotto si possono mangiare come lassativo, come disintossicante dell'organismo, per depurare il fegato, per abbassare la glicemia e la pressione sanguigna.
Si trova in prati stabili e pingui, talvolta negli incolti, dalla pianura alla montagna, anche fino a 2100 m s.l.m. Fiorisce da marzo ad agosto e caratteristici di questa pianta i capolini gialli che si aprono la mattina presto e si chiudono verso il mezzogiorno.
Il nome del genere deriva dal greco "trágos" = caprone e "pogón" = barba, con riferimento alle setole del pappo, che fanno pensare alla barba di un caprone; l'epiteto specifico indica l'ambiente.
Il nome volgare "barba di becco" sembra derivi dal longobardo "bikk" = becco, cioé caprone.
Di origine eurosiberiana, è presente in tutta Italia ad esclusione di Puglia, Sicilia e Sardegna. in Piemonte è molto meno comune di quanto doveva essere un tempo. Rivelatorio in tal senso un detto in Val Chisone che si riferisce a persone onnipresenti, fastidiose, che si mettono sempre in mezzo: "sei peggio di un barbabuch!" Oggi è ancora abbastanza diffusa in terreni non pascolati.
Pianta nota fin dall'antichità, tant'è che in un affresco a Pompei si trova raffigurata la sua radice.
I ragazzini di un tempo ne mangiavano i fusti crudi durante le loro scorribande nei prati, mentre le donne andavano incontro agli uomini che sostenevano degli sforzi ed erano allo stremo con un mazzo di "barbabuch" lessi, perché c'era la credenza che dessero forza. Gli anziani attribuivano a quest'erba la virtù di conservare il buon umore, la freschezza mentale, la longevità. Qualche anziano diceva: "basta che nel Paradiso venga l'erbo bouc, per il resto tutto andrà bene".
Nella medicina popolare italiana la radice trovava diverse applicazioni: come espettorante e calmante per la tosse e coadiuvante in tutte le affezioni dell'apparato respiratorio, ma anche come astringente intestinale, depurativo generale e sudorifero.
L'infuso dei petali era utilizzato per schiarire la pelle e le efelidi. L'acqua distillata dalla pianta era impiegata per la pulizia a secco delle pelli.
Con le radici, essiccate e macinate, si produceva addirittura una farina utilizzata per fare il pane.
Le sue proprietà terapeutiche depurative, diuretiche, espettoranti, sudorifere e astringenti, derivano dalle mucillagini, sostanze amare, glucidi e inulina contenute nelle radici. Quest'ultima è un polisaccaride che gli conferisce il caratteristico sapore dolciastro, molto pregiato sotto il profilo dietetico perché può sostituire gli zuccheri, dannosi nella dieta dei diabetici.
La pianta si rivela utile nelle dermatosi, diabete, gotta e reumatismi, astenie da crescita e superlavoro, mentre per uso esterno il succo crudo della pianta viene utilizzato per le verruche.
Usi culinari
I giovani germogli primaverili sono ottimi mangiati come gli asparagi, lessati e poi passati al forno con burro e parmigiano e hanno anche proprietà depurative. Le foglie più tenere si possono usare per insaporire insalate, minestre, frittate. Ottima anche la radice, consumata bollita e condita con olio e aceto.
Flan al barbabuch
Lessare tre manciate di germogli fiorali di barba di becco in acqua o cuocerli al vapore, poi passare al passaverdura. A parte fare la besciamella, aromatizzando con noce moscata, un po' di sale. Aggiungere 3-4 uova sbattute e un po' di parmigiano. Mescolare il tutto, ungere con una noce di burro la formina del budino, spolverare col pangrattato e versare il composto di prima. Cuocere a bagno maria per circa 45 minuti o 1 ora. A fine cottura mettere il contenitore in acqua fredda, rovesciare su un piatto e, volendo, condire con una fonduta di formaggio oppure con una salsa di porcini o un ragù di carne.