"Polenta, sempre polenta", così esclamano gli anziani di molti paesi, a ricordo dei tempi in cui il tradizionale piatto confezionato col mais, veniva consumato con poche varianti a colazione, pranzo e cena. L'immagine emblematica evocata da Beppe Fenoglio nella sua (e nostra) passata "Malora", della fetta di polenta strofinata sull'acciuga e appesa a un cordino al centro della tavola, diventò l'icona del mondo povero contadino. La sua produzione rappresentò per tante comunità un importante mezzo di sopravvivenza.
I testimoni però concordano tutti su una cosa: quella di una volta era diversa da oggi.
Quella dura, fatta con farina grossolana contenente ancora un po' di cruschello, si metteva nel latte a pezzi o a fette. Da polenta e latte emanavano i profumi agresti di vaccino, di formentone e di lisciva proveniente dal sacchetto di candida tela in cui era conservata la farina gialla dentro al farinajo o cassamadia, insieme ai sacchetti dei ceci e delle lenticchie.
I piatti più elaborati la volevano "concia" (sistemata in un tegame con formaggio, burro, funghi e passata in forno), oppure "acomoda" (unita bollente a burro, toma, cannella e noce moscata). Diffuso in tutto il pinerolese era il consumo della polenta con il vin cheuit, ossia un "vino" di mele. Posto in un recipiente, lo si faceva bollire per almeno 10-12 ore a fuoco lento. Bollendo, il succo tendeva a solidificare e, a cottura avvenuta, si gonfiava e diventava molto denso. In occasione dell'uccisione del maiale, era consuetudine accompagnare i budin (sanguinacci) e la Fricasà (frattaglie fritte) con polenta.
Una volta scoperte le cucine e le spezie orientali, superati i falsi miti delle infinite possibilità degli OGM (che a noi a dire il vero non sono mai piaciuti), tralasciate le parentesi di cucina molecolare e via dicendo...la fantasia degli chef è ora più orientata verso le nostre radici: la riscoperta della polenta, un tempo cibo dei poveri e per anni relegata a contorno dello spezzatino a raduni alpini, la porta oggi ad essere ingrediente di piatti raffinati. Ma il passo non è così breve.
Lo Zhea mais è una robusta graminacea, in Italia conosciuta principalmente come "Granoturco", forse per le sue origini straniere ed esotiche, forse perché la sua coltivazione si diffuse da est, dall'areale balcanico. In Piemonte è semplicemente la "melia", da melica o meliga, che specificatamente individuavano il sorgo o saggina, un tempo coltivati, il cui pennacchio conferiva una vaga somiglianza con il mais.
Notevole la sua importanza agronomica: fin dai primi anni del '900, nel nostro paese rappresenta il secondo prodotto coltivato dopo il frumento. Le innumerevoli situazioni pedoclimatiche presenti sul territorio e le diverse modalità di coltura hanno poi dato origine ad un alto numero di varietà locali, che sono bruscamente diminuite (ed, in alcuni casi, scomparse) a partire dagli anni Cinquanta con l'introduzione degli ibridi. Ciò ha condizionato fortemente il paesaggio agricolo piemontese. Per esempio a settembre, da Barge a Torino si viaggia fra due muri. Uniche interruzioni i paesi, i loro centro storici, spesso recuperati, belli da vedere. Fra un abitato e l'altro pochi sparuti alberi. Solitari, o tutt'al più raggruppati in capannelli. E c'è davvero di che riflettere su questo paesaggio anonimo, così poco riconoscibile.
In Piemonte, grazie al "Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale dello Stato Sabaudo" (Casalis, 1838) è possibile risalire a tutti i comuni delle tre grandi aree in cui si concentrava il massimo della produzione: il Canavese, la bassa Val di Susa e la pianura compresa fra Torino e Pinerolo.
L'abbandono delle montagne e il declino del mondo rurale sono un altro fattore che ha portato alla diffusione della monocoltura di poche varietà, destinate quasi in via esclusiva all'alimentazione animale, per il consumo di carni e la produzione di latte.
Per fortuna però, rispondendo ad una rinata attenzione per il cibo buono e locale, grazie a singoli contadini, mugnai, associazioni, gruppi d'acquisto, piccoli comuni, la selezione-produzione-riproduzione di alcuni di questi mais è stata ripresa. In provincia di Torino se ne contano a tutt'oggi sette, ben distinguibili: il Pignoletto giallo e rosso del Canavese, l'Ostenga bianco del Canavese, il Nostrano dell'Isola, l'Ottofile bianco, giallo e rosso dell'Albese. Le sette varietà, iscritte al Registro Nazionale delle Varietà da Conservazione della Regione Piemonte, sono molto diverse l'una dall'altra, ognuna adatta ad un uso specifico.
La loro riscoperta e rilancio offrono una chance per riqualificare il territorio, e rappresentano un'eccellenza unica, che rende merito al paziente lavoro dei "custodi del seme", guardiani silenti che hanno superato lo scorrere dei tempi per far giungere questi tesori sino ai nostri giorni.
Nel 2005-2007 la Regione Piemonte ha finanziato l'Istituto "Malva Arnaldi" di Bibiana (TO), che in collaborazione col C.R.A.B (Centro di Riferimento Agricoltura Biologica) ha ri-selezionato tali varietà, in campi lontani da fonti di inquinamento genetico, permettendo così negli anni di riottenere le sementi in purezza. Poi nel 2013-2014, grazie a un ulteriore finanziamento della Camera di Coomercio di Torino, è stato possibile coltivare dei campi ai fini della produzione di queste sementi, che sono poi state messe gratuitamente a disposizione dei coltivatori.
Per tutelare tali varietà è stato creato persino un marchio: "Antichi Mais Piemontesi"; ideato dall'omonima Associazione, nata nel 2004 per la conservazione e la valorizzazione delle vecchi ecotipi di mais locali. Attraverso un disciplinare di produzione e sopralluoghi a campione realizzati nei campi coltivati dai soci, essa garantisce che la farina prodotta derivi da vecchie varietà di mais locali, macinati a pietra.
Mais e Parchi
I Parchi, custodi anche della biodiversità alimentare, sempre più sovente si fanno promotori della semina di antiche varietà di mais, con cui vengono confezionati deliziosi prodotti locali.
Così, presso l'Ecomuseo di cascina Maglioni, del Parco Capanne di Marcarolo, è stato allestito un orto a scopo didattico e di ricerca con la semina di sementi di uso tradizionale, recuperate presso le cascine locali, tra cui il mais "Ottofile".
In bassa Valle di Susa, in prossimità del Parco dei Laghi di Avigliana, si coltivano diverse antiche varietà come l'Ottofile rosso, il Pignoletto giallo e rosso. Analogamente in valle Gesso, nel Parco delle Alpi Marittime.
Nel Parco nazionale della Val Grande, precisamente nel paese di Beura, esiste un campo sperimentale per la valorizzare di antiche varietà messicane, che vanno a costituire la farina biologica di alta qualità con cui si confeziona un prodotto tipico, la "polenta di Beura", dall'insolita peculiarità: non fa grumi, difficilmente attacca alla pentola e conserva intatto il sapore e l'umidità, sembrando "fresca" anche a distanza di ore. Il progetto "Polenta di Beura", contribuisce al salvataggio di antichi mais, utilizza ogni anno alcuni campi per la sperimentazione di varietà non ibride, destinate alla costituzione di una banca del germoplasma a salvaguardia della biodiversità del pianeta.
Nel Parco del Po cuneese, in alcuni territori della Valle Po e Infernotto, in particolare nel Comune di Barge, si coltiva invece in piccole quantità il "Pignulet dle Cursaje", vecchia varietà di mais che non viene diserbato ed è bagnato una volta sola, dalla resa bassissima, ma dalla qualità nettamente superiore, da cui si ottiene una buonissima farina per polenta, torte, grissini, paste di mais, biscotti.
Tutti Mais pregiati dunque, che danno luogo non solo a squisite polente conce, ma anche ad ottimi prodotti tipici, dalle famose ed immancabili "paste di meliga", fiori all'occhiello di vari parchi, alle più insolite "Batiaje" (nome che deriva dal fatto che questi dolcetti secchi comparivano in tavola per festeggiare un battesimo), paste di farina gialla tipiche dell'alta Valle Po, alle "Miasse", cialde per antipasti tipiche del Canavese e dell'Alta Val Sesia.
Proprietà medicinali e nutrizionali
Nel mondo contadino il mais è sempre stato ritenuto un valido alleato della medicina popolare per vari malanni, soprattutto d'inverno.
Le sue proprietà quindi, trascendono la buona tavola e si estendono alla salute. Il mais infatti, aiuta la motilità intestinale, combattendo la stitichezza, abbassa il colesterolo cosiddetto "cattivo" (quello che va ad ostruire le arterie), e contribuisce a tener sotto controllo la glicemia.
L'olio di mais, grazie alla vitamina A che contiene, è anche ottimo per i massaggi in quanto rende la pelle morbida ed elastica.
Questo cereale (meglio se di varietà autoctone, non transgeniche), non contenendo glutine e grazie all'alta digeribilità, è stato rivalutato pure nell'alimentazione, soprattutto dai celiaci.
Contiene vitamine del gruppo A e B, fosforo, sodio, ferro e calcio; indicato per migliorare l'attività mentale, per rimineralizzare le ossa ed, essendo molto nutriente, è adatto a chi deve ristabilirsi dopo una fatica o una degenza.
Dalla tavola al talamo il passo è breve: uno dei cibi ritenuti più afrodisiaci è proprio l'insospettabile polenta, senza nulla invidiare ai ben più noti (e costosi) caviale, ostriche e affini. Esperimenti condotti sui topi, alimentati con polenta, hanno evidenziato come fossero particolarmente attivi in fatto di accoppiamento. L'effetto afrodisiaco del mais sembrerebbe dovuto alla mancanza in esso del triptofano, un aminoacido che dà origine alla serotonina, detto l'ormone "anti-incendio", nemico dell'erotismo. Consumare mais significa assorbire, quindi, la dopamina (il suo opposto) che "scatena" il desiderio. Per ottenere ciò va però consumato regolarmente, altrimenti...non fa effetto!
Inutile illudersi comunque: i ricercatori non assicurano se ciò valga quando, alla polenta, si abbini anche l'immancabile bottiglia di barbera!
Sitografia:
http://www.cerealiinrete.it/antichi-mais-piemontesi.asp
http://www.biodiversitaecultura.it/mais-antichi-piemontesi/
http://www.prodottidelpaniere.it/antichi-mais-piemontesi/
orgprints.org/6821/1/pubblic_mais_piemontesi.pdf
http://www.scuolamalva.it/