Esplorare mondi nascosti, imparare nuovi sguardi, ritrovare legami dimenticati. Cosa lega un fondale marino a un grattacielo? Un bosco di abeti alla platea di un cinema? Difendere un ambiente naturale attraverso la sua separazione e delimitazione, fisica e culturale, è stato e sarà ancora per molto tempo necessario (1); ma dovremo iniziare a passare dal separare e delimitare al convivere, al riconnettere, ri-legare: cercando sistemi di protezione e di gestione comuni; stili di vita condivisibili e sostenibili...
Iniziare dai parchi
Si potrà fare questa ricerca iniziando da quegli ambienti che, proprio perché in qualche misura protetti, potrebbero avere condizioni più favorevoli per realizzare soluzioni, convincenti e sperimentabili, di sostenibilità ambientale, sociale, economica e culturale.
Soluzioni trasferibili, generalizzabili anche in altri contesti, preziose e virtuose proprio perché non unicamente legate a eccezionali condizioni del contesto. Le nuove concezioni e gli orientamenti internazionali sulle aree protette prevedono (secondo Roberto Gambino) l'allargamento delle politiche di protezione: «costruire sistemi che tengano conto della complessità delle interrelazioni che legano le aree protette ai contesti territoriali» (dal n. 50 di "Parchi", la rivista di Federparchi).
Tutto ciò si deve confrontare con le difficoltà legate alla frammentazione e alla disgregazione conseguente ai processi insediativi e agli sviluppi tecnologici e produttivi dell'ultimo mezzo secolo, quindi passare da una concezione insulare a una continentale delle aree protette.
Le aree protette possono essere volani di sviluppo locale e il «parco potrebbe legittimarsi come un ente capace di promuovere sviluppo, come uno degli enti che possono giocare un ruolo territoriale con una loro visione strategica » (Anna Natali, riv. cit.). In questo ruolo potenziale e strategico delle aree protette, Giorgio Osti evidenzia alcune debolezze nella situazione italiana: incertezza della normativa, scarsa visione strategica. I singoli parchi possono poco di fronte a problemi così complessi e sarebbe quindi utile sviluppare e accorpare le conoscenze e le pratiche in appositi organismi federati. Si potrebbe aggiungere che gli "organismi" da federare, da far collaborare, possono non essere solo aree protette, ma territori diversi e animati dalla stessa volontà di trattare e affrontare insieme
i sempre più urgenti problemi della sostenibilità.
Sviluppando le concezioni classiche potremmo reinterpretare la sostenibilità come un cercare di prendersi cura dei luoghi, delle persone, delle relazioni e inter-relazioni; a tutti i livelli, nello spazio (globale/locale) e nel tempo (durabilità, rapporti intergenerazionali, visioni strategiche complesse, ecc.). Un prendersi cura frutto di elaborazioni e storie, di iniziative culturali, di processi e trasformazioni sociali (qualità dell'abitare, del lavorare, del convivere, del vivere, dell'educare).
Ma il "pensare globale e agire locale", parola d'ordine dell'ambientalismo scientifico, è sempre attuale? Oggi forse dovremmo riuscire a pensare e agire locale e globale insieme, e inoltre pensare e agire come individui e come collettività. Oggi infatti il locale (un villaggio, un territorio, un quartiere) è costituito da individui che spesso non condividono, con i propri vicini spaziali, altre vicinanze. Sovente si è più vicini culturalmente (e per opinioni, preferenze, valori) a persone e gruppi anche molto lontani fisicamente.
Anzi, è più facile aggregarsi virtualmente (telematicamente e ideologicamente) ad individui sparsi ormai in tutto il mondo, senza limitazioni di distanze spaziali e addirittura temporali. Ma il prendersi cura del locale come dimensione territoriale necessita di vicinanze spaziali e culturali. E queste
sono da costruire.
Sapere non basta
Oggi con internet si potrebbe sapere quasi tutto (senza bisogno di insegnanti, di informatori). Ma dovremmo ormai esserci resi conto che il sapere non basta; e poi che da un sapere non si deduce un dovere, perchè sono altre le priorità che orientano le nostre scelte, i nostri comportamenti.
Secondo Jean Pierre Dupuis «uno dei mali maggiori è che non crediamo in tutto ciò che sappiamo». Le persone quindi non cambiano solo perchè vengono "informate" e questo complica la vita di genitori, educatori e insegnanti: è una difficoltà di cui tutti dovremmo aver fatto esperienza (2), che dovremmo aver appreso e che rende complesso e incerto il progettare cambiamenti nei modi di pensare e di agire delle persone, bambini o adulti che siano. Rende più complessa soprattutto l'educazione, processo che dovrebbe indurre verso modi di pensare, essere e agire «migliori», più adeguati verso sé, gli altri, la società e l'ambiente.
Dovremmo ormai aver ben chiaro che possiamo essere non solo informati ma anche molto istruiti, per esempio, su come funziona e come si guida un'automobile; ma che poi la nostra la guidiamo in un modo molto diverso da come ci è stato "insegnato".
La stessa cosa può valere per le "informazioni-istruzioni" sulla salute, sull'ambiente, sull'alimentazione, sulla legalità, sui consumi, sulla democrazia. Anche educare a questi "temi" non è solo un fornire le informazioni "corrette".
Serve, ma non basta.
Dunque educare: ma a quali condizioni?
Una condizione all'efficacia, ma anche il senso di fare educazione, è che possa avvenire in contesti in cui le virtù di cui tratta (l'ecologia, l'economia, la cittadinanza, la legalità, l'equità, la solidarietà) siano effettivamente praticate: ovvero siano vissute, incorpate nei singoli, nelle organizzazioni, nelle società. L'esempio certo non basta, ma è una condizione necessaria per confermare e dare credibilità alle proposte educative. Per la legalità, per esempio, l'educazione vale in un contesto in cui la legge è finalizzata al bene comune e all'interesse generale: le leggi, come sostiene Gherardo Colombo, non sono necessariamente tutte giuste e adottabili... Si può, si deve contrastare una legge iniqua (la disobbiedenza civile di Lorenzo Milani). Vale per la pace, dell'ambiente, la convivenza civile, la difesa del bene comune.
Allora, che fare? Per iniziare possiamo fare di questi temi costante argomento di dialogo e poi di lavoro; insieme progettando, scrivendo, collegando; imparando, insegnando, educando, formando... Diffondendo quanto si riesce a fare, a imparare, educare promuovendo incontri, pubblicazioni, manifestazioni, tutti connessi e collegati. E che si veda come sono connessi.
Forse occorre nuovamente riconoscere tutto ciò come pratica di cittadinanza attiva, sociale e ambientale; e riconoscerlo anche come politica.
Politica per fare e per educare, politica per cambiare. Un progetto educativo infatti non può che seguire un progetto politico, un programma come disegno di azioni orientate alla convivenza, all'interesse generale, alla sostenibilità sociale e ambientale; così una pratica educativa e formativa si accompagna, segue, si sostiene, è funzionale a una pratica politica, proiettandola nel tempo: si potrebbe dire (parafrasando Catone) che investire sull'educazione è come piantare un albero per un altro tempo. Ma per questo serve un progetto di una politica che sia sostenibile, "capace di futuro". Che sia una politica che immagini anche un altro tempo.
Note
(1) - Parafrasando Bertolt Brecht: «Poveri quei popoli che hanno bisogno dei parchi!» (E. Camanni in La nuova vita delle Alpi, Bollati Boringhieri, Torino, 2002); ovvero di proteggere (in modo sempre più solo simbolico) piccoli pezzi del pianeta dal potere distruttivo della maggioranza delle organizzazioni sociali moderne!
(2) - Potrebbe essere interessante riflettere sul fatto che se da un lato è comune sentire che sono le esperienze che ci fanno cambiare,
che insegnano, quando si devono promuovere cambiamenti nei comportamenti altrui, anziché adottare una teoria denominata per l'appunto "apprendere dall'esperienza" [W.R.Bion, Armando, Roma, 1972], ci si accontenta di una teoria ingenua dell'informazione.