Proseguiamo il nostro viaggio nel mondo degli anfibi, con una specie italiana minacciata e in pericolo di estinzione: l'euprotto sardo, Euproctus platycephalus, un urodelo (anfibio dotato di coda allo stadio adulto) piuttosto enigmatico e della cui biologia e distribuzione si conosce poco. In particolare, nel raccontarvi di questa specie, ho voluto avvalermi dell'aiuto e della competenza di Giulia Tessa, alla quale mi lega una lunga amicizia e che vanta una grande esperienza sul campo proprio con questa specie.
Gli anfibi sono, in effetti, i vertebrati terrestri maggiormente minacciati: un recente articolo sulla prestigiosa rivista Nature ha avuto modo di evidenziare con dovizia di particolari come addirittura il 41% delle specie è minacciato a livello mondiale, vale a dire compreso nelle categorie "Vulnerabile" (Vulnerable, VU), "In Pericolo" (Endangered, EN) e "In Pericolo Critico" (Critically Endangered, CR) della Lista Rossa (Red List) dell'IUCN (International Union for Nature Conservation). Le ragioni di queste problematiche conservazionistiche sono profonde e molteplici, ma principalmente riconducibili all'alterazione degli habitat, allo sfruttamento delle risorse e alla diffusione di patologie emergenti.
Gli hot-spot della biodiversità
Vale innanzitutto la pena ricordare come diverse aree geografiche siano particolarmente ricche di specie, ma allo stesso tempo si presentino assai minacciate. Sono i cosiddetti "hotspot" (o punti caldi) della biodiversità, complessivamente 34 a livello mondiale. Orgogliosamente fra questi vantiamo il bacino del Mediterraneo e l'Italia: la diversità degli anfibi presente sulla nostra penisola è , in effetti, la maggiore in Europa. La stima attuale degli anfibi italiani è di 42 specie, molte delle quali endemiche, vale a dire presenti solo sul nostro territorio. Tra queste tradizionalmente ce ne sono anche molte che hanno, nel tempo, assunto un ruolo iconico, dovuto alla loro rarità e alla difficoltà di rinvenimento e di osservazione.
L'euprotto sardo, un tritone un po' anomalo
Conosciuto anche con vari termini in lingua sarda, tra cui tilibbu, mamma acciara, tarantula de abba, trota canina, trotu canino, trotta marina, su cane'e s'abba, l'euprotto o tritone sardo rappresenta un notevole endemismo sardo. In Corsica, a compendio biogeografico, è presente una specie vicariante appartenente allo stesso genere, Euproctus montanus o euprotto corso. Euproctus platycephalus si trova principalmente nella parte occidentale della Sardegna, con popolazioni piuttosto frammentate in aree coincidenti ai principali rilievi montuosi, spesso granitici: i Monti del Limbara e il Monte Albo a Nord, i Supramonti e il Gennargentu al Centro e nel Sarrabus al Sud, con alcune popolazioni più isolate alla base dei massicci, fino a livello del mare.
A differenza di gran parte degli altri Urodeli, che si riproducono preferenzialmente (o esclusivamente) in siti di acqua stagnante, gli euprotti (sia quello sardo che quello corso) si sono adattati agli ambienti torrenticoli, e, proprio per questo, hanno evoluto caratteristiche loro proprie da un punto di vista ecologico, anatomico e comportamentale. Tra queste, gli adattamenti per giungere efficacemente all'accoppiamento in acqua corrente. Il maschio e la femmina della specie presentano un cospicuo dimorfismo, tra cui la lunghezza totale, che e' di 120-140 mm nei maschi e di 100-130 mm nelle femmine. Le maggiori dimensioni raggiunte dai maschi sono probabilmente un carattere correlato con il loro territorialismo: maschi di grandi dimensioni sono selezionati favorevolmente nel corso dell'evoluzione proprio per la maggiore robustezza, mentre di solito negli anfibi non territoriali sono le femmine a raggiungere dimensioni maggiori, perché a una maggiore taglia corrisponde di solito un maggior numero di uova deposte.
Come negli altri urodeli europei la fecondazione è interna, per giungere alla quale maschi e femmine si impegnano in un accoppiamento acquatico nel corso del quale il maschi "avviluppa" la femmina stringendola con le zampe posteriori, dotate di veri e propri speroni esterni utili per tenerla ferma e in posizione nelle acque turbolente . Oltre a ciò la cloaca del maschio si presenta tubolare e viene utilizzata per trasferire il pacchetto di spermi (denominato in gergo spermatofora) direttamente nella cloaca della femmina. Il termine scientifico del nome generico deriva in effetti da tale caratteristica anatomica (eu = bello, buono, proctus = intestino, ano, cloaca).
Entrambi i sessi presentano una colorazione criptica, bruno-grigiastra con macchie scure o chiare, che richiamano il substrato granitico e le foglie secche sul fondo delle pozze in cui normalmente vive. Poco si sa riguardo a dove trascorre il periodo invernale di ibernazione e altrettanto poco si sa sulla dispersione giovanile.
Uno sguardo alla tassonomia e alla nomenclatura
Infine riportiamo qui una piccola parentesi nomenclatoriale e tassonomica, visto che siamo appassionati di questa disciplina a dir la verità un po' negletta e considerato che lavoriamo entrambi in musei di storia naturale.
La prima descrizione scientifica "valida" dell'euprotto sardo avvenne nel 1839 da parte dello zoologo Johann Ludwig Christian Gravenhorst, che lo incluse genere Molge, il quale, all'epoca, comprendeva tutti i tritoni "classici". La priorità nomenclatoriale per la specie si deve dunque a lui, ma il genere Euproctus venne di fatto coniato dal nostro concittadino Giuseppe Gené (già direttore del Reale Museo Zoologico di Torino), che lo aveva descritto come Euproctus Rusconii, da cui deriva un ulteriore nome comune, quello di euprotto o tritone di Rusconi (ah, e gli esemplari tipici di questa specie su cui è avvenuta la descrizione, sono tuttora conservati nella collezione del Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino).
In realtà, come ricordato nel volume della Fauna d'Italia dedicato agli anfibi, la priorità nomenclatoriale per il genere sarebbe invece dovuta al grande zoologo toscano Paolo Savi (fondatore tra l'altro del Museo di Calci di Pisa), il quale descrisse l'euprotto corso con il nome di Megapterna montana. E ciò avvenne nel 1838 , un anno prima della descrizione "ufficiale" del genere Euproctus da parte di Gené. Per le severe leggi del Codice Internazionale di Nomenclatura Zoologica la priorità andrebbe dunque dovuta a Megapterna e, pertanto, gli euprotti sia di Sardegna che di Corsica dovrebbero essere ascritti, più correttamente, a questo genere. Cosa che finora però non è stata fatta, anche perché la Commissione di Nomenclatura dovrebbe pronunciarsi a favore del mantenimento di Euproctus, in quanto Megapterna, a detta di alcuni, sarebbe un cosiddetto "nomen nudum", cioè un nome non sufficientemente illustrato o descritto.
Le minacce per l'euprotto sardo e i progetti di conservazione
L'euprotto sardo è stato, per molti decenni, un anfibio di cui si lamenta il preoccupante pericolo di estinzione, ma più che altro per un "sentito dire", mentre in realtà abbastanza poco si conosceva direttamente della sua storia naturale e delle reali problematiche.
Lo stato di conservazione di Euproctus platycephalus lo vede attualmente in preoccupante declino. Infatti, oltre ad essere categorizzato come "Vulnerabile" nella Red List mondiale dell'IUCN e "In Pericolo" in quella italiana, è riportato in Appendice II della Convenzione di Berna e in Allegato IV della Direttiva Habitat. Purtroppo la specie ha visto nel corso dei decenni una riduzione progressiva dell'abbondanza di molte sue popolazioni, principalmente a causa dell'alterazione e/o della scomparsa dei corsi d'acqua, specialmente quelli minori, per l'aumento delle temperature e della siccità estiva innescate dai cambiamenti climatici in atto e per il prelievo idrico a finalità domestico ed agricolo, usi che spesso contribuiscono anche a inquinarne le acque.
La carenza idrica di questi ultimi anni e l'uso incrementato da parte dell'uomo, infatti, può impedire lo sviluppo completo delle larve e la loro metamorfosi, e quindi l'assenza di nuove generazioni di euprotti, il che si può tradurre nell'estinzione locale delle popolazioni.
Uno dei primi a occuparsi degli euprotti fu il ricercatore francese Marc Alcher, il quale, negli Anni '70, studiò Euproctus montanus e E. platycephalus, chiarendone la distribuzione e alcuni aspetti riproduttivi. Come tradisce il suo epiteto specifico latino platycephalus, l'euprotto sardo ha una testa larga e piatta, con una colorazione criptica con il fondo granitico dei torrenti dove vive. L'euprotto sardo, peraltro, non è una specie facile da rinvenire e da studiare; i torrenti che frequenta, infatti, sono perlopiù di montagna, protetti dalla macchia mediterranea, con pozze d'acqua fredda e corrente, meglio se profonde, in cui nuota veloce, nascondendosi sotto le pietre: per questo alcuni aspetti della sua biologia sono ancora oggi sconosciuti. Ricordiamo anche un articolo pionieristico del 1983 dedicato alla conservazione degli anfibi italiani, redatto da Silvio Bruno, erpetologo molto attivo nella seconda metà del secolo scorso, il quale per primo pubblicò, sulla Rivista Piemontese di Storia Naturale, una review sulle specie italiane di Anfibi minacciati, euprotto sardo compreso. Si deve anche a lui e a quell'interessante contributo il conseguente accresciuto interesse per la conservazione di animali che fino a quel momento erano ritenuti poco attraenti a fronte di ben noti mammiferi e uccelli.
Da lì in poi fu grazie all'attività sul campo di un sempre maggiore gruppo di appassionati erpetologi, che vennero messi insieme innovativi progetti di conservazione. Ancora prima dell'allarme "ufficiale" che sarebbe stato lanciato da erpetologi preoccupati per la vistosa diminuzione dei contingenti di popolazione di anfibi al First World Congress of Herpetology che si tenne nel 1988 a Canterbury. Tra i significativi risultati che sarebbero seguiti anche la constatazione che l'euprotto, al pari di molti altri anfibi, benché "minacciato" (come classificato dall'IUCN), era ancora una specie a suo modo resiliente. L'attenzione che vogliamo sottolineare in questo articolo è che è sempre necessario che gli studi vengano condotti, per quanto possibile, direttamente sul campo e che vengano adeguatamente pubblicizzati i risultati, ricordando che la conservazione delle specie non può prescindere da quella dei loro habitat elettivi.
La minaccia dei chitridi e i monitoraggi
Il declino e la perdita di anfibi sono problemi riverberati a livello globale. Una delle minacce più rilevanti, oltre all'alterazione degli habitat, è stata identificata nelle cosiddette malattie infettive emergenti. In particolare, il fungo microscopico Batrachochytrium dendrobatidis (abbreviato Bd) è una delle due specie di micro-funghi chitridi, insieme a B. salamandrivorans (abbreviato Bsal), a causare la (anzi "le") chitridiomicosi, la più nota patologia infettiva che colpisce la biodiversità anfibia, responsabile del declino di numerose popolazioni e, in alcuni casi, anche della loro estinzione. Bd e Bsal sono diventati negli ultimi anni un preoccupante causa di estinzione, sia a livello locale che globale. Il Bd è stato confermato su oltre 500 specie di anfibi, sia di anuri che di urodeli. Tuttavia, la sua presenza non sempre si traduce in una minaccia immediata per l'ospite, in quanto l'impatto relativo dipende da diversi fattori.
Le spore del chitridio si incistano nell'epidermide degli anfibi, l'organo che svolge importanti funzioni di respirazione e di regolazione dei liquidi e della temperatura. L'infezione può variare da specie a specie e da una situazione all'altra: da una presenza lieve (praticamente irrilevante) a una vera e propria malattia con gravi sintomi, da lieve declino delle popolazioni a vere morie di massa, fino all'estinzione locale e globale, come è avvenuto ripetutamente in Centro America e in Australia. Il Bd è stato segnalato in tutti i continenti ove sono presenti anfibi, ma la sua origine è stata ricondotta Continente asiatico, da cui poi si è diffuso probabilmente grazie al trasporto passivo delle sue spore, che possono propagarsi attraverso media acquatici o umidi contaminati. Il fungo può diffondersi attraverso vari vettori, tra i principali sì trova l'uomo con pesca e sport acquatici, altri anfibi mediante infezione naturale o liberazione da parte dell'uomo di animali infetti commerciati per il pet-trade o il mercato alimentare, e altri animali acquatici quali uccelli e gamberi di fiume.
Diversi lignaggi genetici di Bd sono stati finora identificati, tra i quali il cosiddetto BdGPL (Global Pandemic Lineage), il quale è risultato particolarmente infettivo e assai diffuso a livello mondiale. Questo lignaggio è stato trovato anche in Sardegna, dove è causa di declino in diverse specie. La seconda specie di chitridio, il Bsal, che invece colpisce solo gli urodeli, non è stato finora rilevato in Italia, ma nella Lista Rossa dell'IUCN (International Union for Nature Conservation) è ritenuto tra le più preoccupanti minacce potenziali per gli anfibi italiani.
Il chitridio e l'euprotto
Dopo la scoperta che il Bd era presente sull'isola, iniziò un lungo lavoro di "screening" volto a definire le aree di infezione e gli ospiti. Risultarono non solo l'euprotto, ma anche altre specie con il quale spesso vivono in sintopia: il discoglosso sardo (Discoglossus sardus), la raganella sarda (Hyla sarda), il rospo smeraldino (Bufotes balearicus), i geotritoni (le specie del genere Speleomantes), anch'essi endemici dell'isola, e la rana verde Pelophylax kl. esculentus, la quale in Sardegna è stata introdotta. Questo fu realizzato grazie ai contatti personali dei ricercatori, ma soprattutto alla collaborazione degli abitanti locali e dell'Ente Foreste Sardegna, con le loro preziose segnalazioni di popolazioni della specie.
I membri della ONG "Zirichiltaggi Sardinia Wildlife Conservation" insieme ai ricercatori della "Zoological Society of London", dopo aver raccolto e "swabbato" (neologismo per indicare il passaggio di tampone sulla loro pelle al fine di recuperare campioni tessutali) centinaia di esemplari, hanno scoperto in questi anni che il Bd era presente principalmente al Nord della Sardegna.
In seguito il lavoro si è concentrato nello studiare studiare cosa comportava la malattia sulle specie, che vede gli euprotti fare i conti con varie conseguenze, ovvero problemi di crescita corporea e diminuzione di individui giovani nelle popolazioni, mentre - a quanto pare - i discoglossi sardi purtroppo subiscono anche vere e proprie morie di massa, un fenomeno tristemente noto in altre parti del mondo. I geotritoni al contrario, sono risultati negativi al chitridio, in quanto probabilmente il muco che ricopre il loro corpo li rende resistenti alle spore che, quindi, non riescono a incistarsi nell' epidermide.
Il progetto di studio epidemiologico è proseguito per 13 anni a partire dal 2007, continuando a monitorare le popolazioni infette e ottenendo preziosi dati a lungo termine, utili sia allo studio della biologia della specie che dell'epidemiologia del patogeno. In quegli stessi anni, proprio l'euprotto sardo era considerato minacciato di estinzione, il Bioparco di Roma, in collaborazione con l'Università di Roma Tre e l'Assessorato della Difesa dell'Ambiente della Regione Sardegna, avvio' un progetto di conservazione mediante captive breeding ex situ, riuscendo con successo a riprodurlo. Contestualmente venne avviato un imponente lavoro di citizen science sulla distribuzione della specie in collaborazione con l'Ente Foreste Sardegna, anche mediante l'utilizzo di questionari da far compilare dalla popolazione locale, che fortunatamente portò alla conclusione che, sebbene con maggiori problematiche rispetto all'epoca, almeno l'areale della specie attualmente non era così diverso da quello degli anni '70.
Infine, per monitorare e conservare la specie, la Regione Sardegna si è dotata di uno specifico Piano di Conservazione dell'euprotto sardo Euproctus platycephalus, promosso dall'Assessorato all'Ambiente e redatto dall'Ente Foreste Sardegna insieme ai ricercatori coinvolti nello studio della specie, punto di riferimento per le attività presenti e future sull'isola.
Breve storia di un endemismo zoologico dal diario dei ricordi di Giulia
Odore di mirto, di cisto e ginestre, di pioggia, di legna bruciata, di pancetta arrosto, di alcool, di sudore e di emozione: questo è ciò che associo all'euprotto sardo, e che mi ricorda quel lontano 2006, primo anno di spedizioni in Sardegna per me, insieme ai colleghi dell'ONG Zirichiltaggi Sardinia Wildlife Conservation, che già da anni seguivano questa meravigliosa specie e che sarebbero stati per me una famiglia negli anni a seguire. L'emozione era quella di vedere per la prima volta un anfibio endemico di un'isola, la Sardegna, così vicina ma nello stesso tempo così misteriosa e piena di segreti, anche riguardanti le scienze naturali. E tra i rari torrenti che si perdono nella macchia spinosa, vive questo piccolo tritone dal colore del granito. La prima spedizione di cui feci parte, nel 2006, era volta a conoscere aspetti della fenologia della specie, ma le spedizioni a seguire, dal 2007, avrebbero avuto anche un altro scopo, più impellente e preoccupante: lo studio delle conseguenze di un fungo patogeno che mieteva vittime tra le specie di anfibi di tutto il mondo. Ricordo che la mia prima spedizione fu caratterizzata dalla pioggia: piovve talmente tanto che per giorni, passati in vestiti e tende zuppe d'acqua, non riuscimmo a trovare nulla, salvo finalmente schiarire e nel cuore del Gennargentu permettermi di vedere finalmente il misterioso anfibio. Nella gola di Gorropu, famosa per essere il canyon più profondo d'Europa e per le attività di canyoning, trekking e arrampicata che si svolgono, vidi il mio primo euprotto, in una che viene considerata tra le principali popolazioni della specie per abbondanza. Scoprimmo poi negli anni a seguire che fortunatamente lì il chitridio non era presente, nonostante il gran viavai di turisti che possono essere portatori del patogeno attraverso scarponi e mute da sub bagnate. Nel frattempo, in quello stesso anno, dei campioni di tessuto (una falange) di euprotti, che la stagione precedente erano stati raccolti dei membri di Zirichiltaggi e presentavano sintomi di una "strana" patologia, venivano analizzati a Londra nei laboratori della ZSL. L'esito non presentava dubbi: quegli esemplari erano positivi al chitridio. Ci organizzammo subito con loro e dall'anno successivo, da un gruppo di ricercatori amici stretti, ci trasformammo in una numerosa task force organizzata, pronta a cercare segni di chitridio in tutto l'areale di distribuzione dell'euprotto. Ogni euprotto (e gli anfibi che vivevano con lui) veniva catturato e posizionato in un sacchetto di plastica con dell'acqua, per non farlo entrare in contatto con gli altri e contagiarlo, e poi veniva accuratamente sessato, misurato, pesato (il tutto usando guanti sterili diversi per ogni esemplare e disinfettando ogni volta l'attrezzatura), fotografato (ogni euprotto ha delle macchie scure sul ventre bianco che permettono di riconoscerlo individualmente) e soprattutto veniva effettuato il tampone sulla cute. I tamponi raccolti venivano poi analizzati in inverno nei laboratori londinesi. Dei dodici anni passati a cercare di saperne di più sul rapporto tra l'euprotto sardo e il patogeno che lo colpiva, ne passai tre decisamente speciali, a svolgere un dottorato di ricerca (non pagato, ma d'altronde l'amore per questi animali non aveva prezzo!) tra la Sardegna, Londra e Torino, la mia città, dove aveva anche base l'Università che scelsi come riferimento accademico. Anni di raccolte dati e gran lavoro, moltissimi dati che ancora oggi abbiamo e da cui sicuramente potremo ancora trovare molte risposte alle nostre domande. Nel periodo del Covid e della Brexit, il nostro rapporto con Londra divenne più complesso, e, insieme al fatto che il nostro lavoro da volontari diventava sempre più difficile da sostenere tra lavoro e famiglia, la collaborazione si interruppe e così le nostre missioni. Ma questi anni ci hanno lasciato più domande che risposte, a cui ognuno di noi, ripassando in futuro tra quei torrenti sardi, tenterà di rispondere, perché il lavoro sul campo è la base per comprendere le complesse interazioni del mondo animale.
Si ringrazia Matteo Di Nicola per la disponibilità nel mettere a disposizione le sue fotografie.
*Museo Regionale di Scienze Naturali, Torino
**Museo Civico di Storia Naturale di Morbegno