Il tritone punteggiato (Lissotriton vulgaris meridionalis) è una specie che mi sta particolarmente a cuore. Ho avuto modo di osservare i miei primi esemplari quando ero ancora ragazzino, immerso negli Anni '70, mitici. Il primo esemplare che trovai fu una femmina in habitus riproduttivo, piuttosto panciuta, trovata in una pozza temporanea a Druento, ridente cittadina della prima cintura torinese dove, all'epoca, abitavo con i miei genitori. Non capii subito di che specie si trattasse, anche perché all'epoca non avevo molti libri che la illustrassero adeguatamente, soprattutto una femmina. Ovviamente, avevo a casa alcune enciclopedie zoologiche (all'epoca molto diffuse), ma le fotografie riguardavano di solito specie di altri luoghi del mondo e, inoltre, non erano molto fedeli e veritiere.
Il più delle volte raffiguravano maschi in livrea nuziale, ma solitamente della sottospecie vulgaris, caratterizzata da una cresta ampiamente dentellata. Il nostro Lissotriton vulgaris meridionalis, che all'epoca si chiamava ancora Triturus, ha maschi decorati da una cresta rettilinea e da una sezione trasversale del corpo piuttosto quadrangolare (a differenza del vulgaris, che invece ha una forma tondeggiante).
Penso che sia stata proprio quella prima femmina il fattore scatenante per la mia passione per gli anfibi: da allora non ne potei più fare a meno (ero diventato drogato per gli anfibi?). L'epifania anfibia finale arrivò quando, durante i miei pellegrinaggi da adolescente boomer su Piaggio Ciao o Vespa 50 Special, scoprii il meraviglioso mondo degli anfibi. Nelle campagne dietro casa, trovai un piccolo ristagno di un rigagnolo, una lenta bealera. Fu lì, in un imprecisato marzo di quel decennio, che trovai - o meglio, vidi e contemplai - diversi maschi di tritone punteggiato mentre si dedicavano a un affannoso corteggiamento nei confronti di femmine piuttosto indolenti e statiche sul fondo di quella polla cristallina. Lì riconobbi immediatamente che si trattava di conspecifici della prima femmina che avevo trovato qualche anno prima. I maschi, invece, erano fantastici: di un colore tendente al giallo, con una punteggiatura scura, strie longitudinali sul capo e una sorta di bandiera rossa, bianca e azzurra sul lato inferiore della coda. Per non parlare del ventre, arancione con macchie nere. Colori usati come veri segnali amorosi nel corso dello sventolio (chiamato in gergo erpetologico ed etologico fanning) della coda stessa, agitata dal maschio nel corteggiamento subacqueo.
Riprodursi... ma solo nell'acqua!
Eh sì, nel periodo riproduttivo, i maschi e le femmine di tritone di tutte le specie diventano acquatici (mentre nel resto dell'anno sono terrestri). I maschi sviluppano allora la cresta caudale, con quei colori che ricordano la bandiera francese: una cresta dorso-caudale rettilinea e dei lobi sulle zampe posteriori. Questi servono per nuotare più agevolmente e per contrastare la corrente d'acqua che loro stessi producono, per l'appunto, col fanning, ovvero lo sventolio ripetuto per conquistare la femmina. Sventolando la coda a ritmi anche abbastanza sostenuti, i maschi di tritone emettono anche dei feromoni che attraggono le femmine, una sorta di danza profumata alla Tony Manero nel Saturday Night Fever. Quando la femmina è recettiva, si muove lentamente verso il maschio (in realtà è piuttosto interessata, ma non lo deve dare a vedere!), lo tocca con la punta del muso e lo stimola a rilasciare quella che si chiama "spermatofora", vale a dire un pacchetto gelatinoso di spermatozoi che viene deposto sul substrato. La femmina si avvicina, cattura con la cloaca questo involucro di spermatozoi e rimane fecondata. Per i tritoni, che hanno un corteggiamento nuziale subacqueo ma non hanno un amplesso, si dice che ci sia una fecondazione interna senza accoppiamento (a differenza invece delle rane, che sono sempre anfibi e hanno invece un vero e proprio accoppiamento con fecondazione esterna). Le uova dei tritoni vengono deposte una a una su foglie di piante acquatiche e da lì ha inizio, nuovamente, il perenne ciclo della vita.
Il richiamo dello stagno delle 'origini'
Dicevo, comunque, della mia avventura scientifico-amatoriale con i tritoni punteggiati. Che non si fermò lì. Nel 1984 iniziai la mia tesi di laurea in scienze biologiche. Forse sono stato addirittura il primo in Italia a utilizzare barriere plastiche (chiamate in gergo albionico drift fence) per circondare uno stagno e intrappolare gli anfibi in migrazione primaverile seguendo i dettami della scuola inglese di Tim Halliday, Richard Griffiths e altri. Quando arrivano le piogge primaverili, i tritoni e altri anfibi (come i rospi comuni) sono attratti dal profumo dello stagno in cui sono nati e in cui si sono sviluppati come girini, e tendono a tornare lì per riprodursi. Questo fenomeno si chiama "filopatria" ed è (anche) per questo che in molti casi si trovano anfibi sul manto stradale quando piove, proprio perché tentano di raggiungere il proprio sito riproduttivo.
Il mio obiettivo era studiare due specie di tritoni: il tritone crestato e il tritone punteggiato. Quell'anno a Druento avevo identificato lo stagno lungo via Misterletta, una strada piuttosto nota. Si trattava di una via di campagna (oggi sicuramente trasfigurata da asfalto e cemento, come la via Gluck di Celentano e quello stagno, ahimè, non c'è più) che portava a ville e villette costruite negli anni del boom economico. Lo stagno in questione, che avevo già adocchiato e visitato negli anni precedenti e che mi era sembrato consono per il mio studio, era adiacente - per l'appunto - a una di quelle villette. Chiesi ai proprietari, con il timore tipico dell'adolescenza, l'autorizzazione ad accedere e a condurre lo studio. Che fortunatamente mi fu concessa. Così, per due anni consecutivi, alla fine dell'inverno (gennaio/febbraio), montai quella barriera di plastica (50 cm di altezza, sorretta da paletti) per bloccare i tritoni e gli altri anfibi che si stavano dirigendo verso il sito acquatico per riprodursi, facendoli cadere nelle cosiddette pit-fall, ossia "trappole a caduta", secchielli interrati a filo a una distanza di circa 5 metri l'uno dall'altro. Gli anfibi, arrivando contro la barriera, girano e la costeggiano, sperando di trovare un pertugio per poi cadere in quelle trappole. Così riuscii a catturare un buon numero di tritoni di migrazione riproduttiva, che misurai e fotografai con solerzia e passione: i grandi tritoni crestati (di cui vi parlerò in un prossimo appuntamento di Sherlock Holmes) e i delicati, quasi vellutati, tritoni punteggiati o tritoni comuni (che poi così tanto comuni non lo erano già allora). Ho ancora i dati di queste migrazioni riportati su quaderni cartacei autografi, scritti a mano prima della rivoluzione digitale.
Così divenni il "signore dei tritoni" (almeno per quegli anni) e imparai ad apprezzare e studiare quei piccoli animaletti che, di lì a qualche anno, sarebbero stati dichiarati, insieme agli altri anfibi, tra i vertebrati tetrapodi quelli maggiormente minacciati di estinzione (il 41% delle specie è compreso nella Lista Rossa dell'IUCN). Oggi, in particolare, i tritoni sono diventati ancora più preziosi rispetto a quegli anni del secolo scorso (e millennio). Non è facile trovarli: l'alterazione degli habitat, l'introduzione di animali esotici e il global warming hanno fatto il resto. Mi ricordo anche i grandi numeri di tritoni che facevamo a Cascina Bellezza, vicino a Poirino, quando iniziammo a studiare il pelobate fosco (anche di lui vi parlerò in seguito, non disperate). Poi arrivarono le rane toro, vivaci e voracissime, e i gamberi rossi della Louisiana, altrettanto perniciosi e veri parassiti. Nonché il funesto fungo degli anfibi, l'impronunciabile Batrachochytrium dendrobatidis, abbreviato in Bd. Tutto questo ha fatto sì che il tritone punteggiato diventasse una specie rara.
Nel libro Erpetologia del Piemonte e della Valle d'Aosta, che pubblicai nel 1998 con l'amico Roberto Sindaco, il tritone viene descritto come specie abbastanza diffusa nella pianura e a bassa quota. Ma stiamo parlando di un quarto di secolo fa. È forse già tempo di lanciare un nuovo atlante erpetologico delle nostre regioni? Immagino che i nuovi appassionati raccoglierebbero dati inediti che potranno fornire strumenti indispensabili per la conservazione: chi tra i lettori di Piemonte Parchi è disposto a segnalare la distribuzione delle specie di anfibi e rettili nel nostro territorio?
P.S. Ah, per caratterizzare questa rubrica dedicata agli anfibi del Piemonte e della Valle d'Aosta userò come base iconografica solo i miei disegni originali ad acquerello, gouache, al tratto o realizzati con altri trucchi grafici.
* Franco Andreone è Conservatore di Zoologia al Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino nonché membro del gruppo di coordinamento dell' IUCN/SSC Amphibian Specialist Group