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L’uva frutto degli dèi

Nelle acque dell'Oceano, al largo delle Colonne d'Ercole, secondo gli antichi c'è un'isola meravigliosa, descritta da Luciano di Samosata nella sua Storia vera: è l'isola di Dioniso, così chiamata perché vi si serba l'impronta del piede del dio del vino

  • Anna Ferrari
  • ottobre 2010
  • Giovedì, 2 Settembre 2010

Trovare l'isola di Dioniso sarebbe, è il caso di dirlo, un'esperienza inebriante, perché nell'isola scorre, a sentire Luciano, scrittore e retore antico, un fiume di purissimo vino. Se poi fosse possibile risalire quel fiume fino alla sorgente, si scoprirebbe che scaturisce da una splendida vigna: «accanto a ciascuna radice sgorgava una stilla di vino limpidissimo e da tutte queste stille insieme era formato il fiume». Persino i pesci, qui, sanno di vino: mangiandone, Luciano e i suoi compagni arrivano a ubriacarsi. Le viti, poi, hanno la parte superiore in forma di corpo di donna, dalle cui dita e dalle cui chiome pendono i grappoli. Chi, sedotto da quella visione, le abbraccia, vi rimane saldato in un viluppo inestricabile, mentre riceverne un bacio è sufficiente per sentirsi ebbri.
Dioniso, il nume dell'isola, il Bacco dei Romani, è nella mitologia greca il dio della vite e del vino, e innumerevoli leggende collegano alla sua figura l'uva e la vinificazione. Fin da bambino Dioniso giocava con i grappoli: affreschi pompeiani e sculture greche lo raffigurano, bamboccetto paffuto, nell'atto di protendere le manine verso gli acini d'uva lucente. Dioniso era nato nell'isola di Nasso e vi era stato allevato dalle Ninfe: per questo il vino di Nasso era così squisito. Divenuto poi uno splendido ragazzino, un giorno il giovane dio venne rapito dai pirati che infestavano il Mediterraneo; essi avevano intenzione di venderlo come schiavo e lo trascinarono sulla propria nave, ma in un battibaleno il dio si liberò: trasformò i suoi rapitori in delfini e fece spuntare sul battello una pianta di vite, che si avvolse intorno all'albero in una fantasmagoria di grappoli e ne inceppò il timone, bloccandola in mezzo al mare.
Divenuto adulto, Dioniso percorre il mondo insegnando agli uomini a coltivare la vite. Padroneggiare quell'arte diventa segno di civiltà, discrimine tra vita selvaggia e società evoluta, e Dioniso è dio civilizzatore per eccellenza. Ogni parte della vite, ogni oggetto legato al vino ha un mito che ne spiega l'origine e il nome. Il grappolo d'uva, per esempio, si chiama in greco àmpelos, dal nome di Ampelo, amato da Dioniso: in pegno del suo amore, il dio gli donò una vite, che però gli fu fatale. Mentre raccoglieva i grappoli, che spuntavano a grande altezza, il giovane Ampelo salì infatti troppo in alto e cadde, morendo sul colpo. Dioniso lo trasformò allora nella costellazione del Vendemmiatore, e da quel momento àmpelos fu il nome greco del grappolo d'uva. Quando il dio insegna agli abitanti della Lidia a produrre il vino, lo assiste un suo seguace dalla testa assai voluminosa, chiamato Pythos, che dà il nome al recipiente nel quale si raccoglie il prezioso liquido, l'anfora che in greco è detta, appunto, pythos. Poiché poi in Grecia il vino, fortissimo, non si beveva mai puro, bensì allungato con l'acqua, si raccontava che il primo a provare le varie mescolanze fosse stato un certo Cerauno, che trovò le giuste proporzioni: il suo nome derivava dal verbo greco che significa appunto 'mescolare' (il vino puro, secondo i Greci, era bevuto solo da popoli selvaggi come gli Sciti: un autore serissimo, Platone, nelle Leggi, dice che essi se lo versano addirittura sugli abiti). Il nome stesso del vino, in greco oinos, derivava da Oineo, re di Calidone in Etolia, il cui antenato Oresteo, interrando il ceppo di una vite, scoprì per primo i segreti della coltivazione delle vigne.
Amore e morte, felicità e insania si fondono nei racconti mitici imperniati sul tema dell'uva e del vino: perché la coltivazione della vite è una straordinaria conquista dell'agricoltura, ma può avere risvolti inquietanti. Lo testimonia il mito di Icario, re dell'Attica: Dioniso gli insegnò a coltivare la vite, e quando ottenne l'uva, e da questa il vino, Icario ne diede da bere ai suoi contadini, i quali però, ubriacatisi, credettero che egli volesse avvelenarli e lo uccisero.
Altrettanto drammatica è la storia di Licurgo, re della Tracia, che proibì la coltivazione della vite nel suo regno temendo gli effetti del vino, il disordine sociale che l'ebbrezza produceva e soprattutto la sfrenatezza e libertà cui induceva le donne. Egli venne reso folle dallo stesso Dioniso: dapprima uccise la moglie e il figlio, poi fu scaraventato dal dio tra le fauci delle belve delle montagne. Perduto il senno, si diceva che si fosse tagliato un piede pensando che fosse una vite; o che avesse ucciso il proprio figlio scambiandolo per un tralcio.
L'uva compare anche in diversi racconti che direttamente con Dioniso non hanno nulla a che fare. Un giorno Calcante, il più celebre indovino greco, stava piantando alcune viti, quando un suo vicino, indovino come lui, gli vaticinò che non sarebbe mai arrivato a gustarne i frutti. Quando, di lì a poco, Calcante lo invitò a cena e gli offrì il proprio vino, il vicino ribadì la sua previsione e Calcante, già con la coppa in mano, scoppiò in un riso così irrefrenabile da morirne soffocato. Celebre è l'episodio di Ulisse e Polifemo narrato nell'Odissea: l'eroe greco ha la meglio sul Ciclope ubriacandolo con un vino così forte che occorreva mescolarlo con dodici parti di acqua; ovviamente Polifemo, bevendolo puro, cadde vittima di Ulisse che gli accecò facilmente l'unico occhio. Anche i Centauri appaiono spesso ebbri: il vino può essere, secondo l'uso che se ne fa, un veleno oppure un toccasana. A Roma, nei tempi più antichi, una legge vietava alle donne di berlo: una dama colta in flagrante fu uccisa a colpi di bastone dal marito, che fu poi assolto da Romolo dall'imputazione di assassinio. Un'altra matrona, per aver soltanto aperto la cassetta contenente le chiavi della cantina, fu condannata dai parenti a morire d'inedia. Secondo Catone, i parenti maschi baciavano le donne proprio per scoprire se il loro alito sapeva di vino. C'erano molte uve diverse, e svariate credenze per ciascuna di esse. Nell'isola di Ogigia, dove Ulisse secondo l'Odissea sostò presso Calipso, la grotta della ninfa era circondata da una vite domestica piena di grappoli; nell'isola di Eubea c'era una vite leggendaria che spuntava all'alba e al tramonto con i grappoli già maturi; in Arcadia cresceva un'uva il cui vino eccitava gli uomini e rendeva feconde le donne; l'uva di Trezene invece le rendeva sterili; chiunque si dissetava alla fonte di Clitorio, un fiume dell'Arcadia, diventava immediatamente astemio; nell'isola di Andro una sorgente, esclusivamente al 5 di gennaio, produceva un'acqua dal sapore di vino; le donne in gravidanza dovevano astenersi dall'uva di Cerinia, in Acaia, perché si diceva che le facesse abortire. Le uve di Cos producevano un ottimo vino, ottenuto però con l'aggiunta di acqua marina da quando uno schiavo, avendo rubato del vino, aveva rabboccato il recipiente con eguale quantità di acqua di mare per non farsi scoprire; incredibilmente, il risultato fu molto apprezzato. Chi voleva bere del vino di Pramno, infine, doveva badare che non ci fosse nei paraggi la maga Circe: di quel vino, secondo l'Odissea, si era servita per somministrare le sue potenti pozioni ai compagni di Ulisse trasformandoli in fiere.

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