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Silenzio! Ascolta la natura

In occasione della giornata internazionale dell'udito stabilita per il 3 marzo di ogni anno, proponiamo alcune riflessioni sui sensi che si attivano durante esperienze sul campo o una giornata di servizio nei parchi regionali. Consapevoli che il silenzio di cui andiamo in cerca, spesso significa restare in ascolto dei suoni della natura. 

  • Luca Giunti
  • Marzo 2021
  • Martedì, 2 Marzo 2021
Capinera maschio in canto ad Arnodera | Foto L. Giunti Capinera maschio in canto ad Arnodera | Foto L. Giunti

 

Homo sapiens è una specie eminentemente visuale. La visione stereoscopica e la capacità di distinguere forme e colori ci sono stati utilissimi per scendere dagli alberi e diventare raccoglitori di bacche, frutti, tuberi, larve, uova, crostacei, molluschi e compagnia proteinica. Due milioni di anni dopo siamo quelli che siamo: la realtà quotidiana la rappresentiamo a noi stessi quasi esclusivamente attraverso gli occhi e, ancor più, attraverso la mediazione di ogni tipo di schermo. Rischiando di dimenticare quanto il nostro corpo usi gli altri sensi senza esserne consapevoli. Si direbbe, a nostra insaputa!

All'aperto ce ne accorgiamo di più. Il "paesaggio sonoro", ad esempio, forma uno sfondo inconfondibile, molto rilassante, come dimostra la continua produzione di album musicali che registrano soltanto suoni naturali. L'ultimo in ordine di tempo è il meraviglioso lavoro di Max Casacci dei Subsonica, Earthphonia, con i commenti di Mario Tozzi. Questo scenario acustico viene usato in due esperienze poco conosciute, la vigilanza e l'ornitologia.

Ascolto sul campo

I guardiaparco si alzano alla mattina presto, raggiungono le zone di servizio all'alba, occultano l'auto e si mettono in ascolto. Dopo una mezz'ora hanno assorbito la partitura del concerto in corso quella mattina in quel punto. Qualsiasi variazione o stonatura mette in allarme, desta l'attenzione, fa puntare occhi e binocolo. Un ramo spezzato, il rumore di un motore in avvicinamento (talvolta un'auto a fari spenti), due voci sussurranti (quanto va lontano il suono di chi parla!), il silenzio improvviso di tutti gli uccelli. Molte operazioni di polizia o di semplice controllo di comportamenti leciti sono iniziati dalle orecchie. Gli occhi sono intervenuti dopo.

Altrettanto istruttivo è seguire i migliori ornitologi durante una campagna di monitoraggio. Contrariamente a quanto si può pensare, quando devono compilare la check-list di un qualche ambiente si basano tantissimo sull'udito, sulla loro esperienza e capacità di riconoscere i canti e i versi degli uccelli. Una tecnica consolidata sono i cosiddetti "punti di ascolto". Per un quarto d'ora restano fermi, occhi bassi, un foglio d'appunti in mano, concentrati sul proprio udito. Al termine dei 15' si spostano in un altro luogo prefissato e ripetono l'indagine. Questa attitudine è talmente importante che nella comunità degli specialisti da qualche anno si dibatte il problema della riduzione della acuità uditiva inevitabilmente collegata con l'avanzare dell'età. Si teme che possa portare a non più percepire determinate frequenze e quindi a trascurare la presenza di alcune specie di uccelli. Servono ornitologi giovani!

Occhi e orecchie sono i due sensi che contribuiscono maggiormente alla formazione della memoria a lungo termine, come diceva già Isidoro di Siviglia prima dell'anno Mille. Gli artisti e i poeti sono sempre stati affascinati dal tema dello spazio e del silenzio. Due su tutti: Giacomo Leopardi ne L'infinito e John Cage nel suo celeberrimo silenzio di 4.33. Perché il silenzio non è mai assenza ma accadimento. Ce lo spiegano bene le filosofie orientali e le discipline meditative, ma noi lettori di Piemonte Parchi abbiamo un privilegio in più. Il numero 7 del 1985 ospitò la riflessione di un grande scrittore, Primo Levi. 35 anni da allora e pensieri attualissimi. Vale la pena rileggerli integralmente.

Alla ricerca del silenzio

Ad eccezione di casi estremi, gli uomini e le donne mi piacciono, o mi divertono, o almeno mi interessano. Mi interessano anche le loro opere, purché siano adatte allo scopo per cui sono state pensate: i figli della mano e quelli della mente (in specie i figli della mano e della mente), cioé, alla rinfusa, i libri e gli attrezzi agricoli, le case e i tessuti, i campi arati e le macchine, i gioielli, gli aerei, le fotografie, i ponti. Mi piace confrontare tra loro i recipienti: scatole, bottiglie, pentole, secchi, sacchi, cisterne, i silos per i cereali; più in generale, tutti i manufatti destinati a contenere cose o creature che altrimenti si disperderebbero, e quindi anche le stie per i polli, i recinti per le pecore, le dighe, gli otri. Un giorno ai contenitori dedicherò un saggio riverente.

Però mi attirano di più gli spazi in cui l'uomo e la sua opera sono assenti. Ormai non è più facile trovarne in Italia, che è sovraffollata: lo è visibilmente, basta affacciarsi a una qualunque delle sue frontiere. Non c'é campo che non sia stato arato, da secoli, da millenni; non c'é valico che non sia solcato da un sentiero, quando non addirittura da un'autostrada. I suoi stessi fiumi portano i segni della presenza umana, in forma di argini, di scali, di ponti; in tempi storici o preistorici, i fiumi, i torrenti, i ruscelli sono stati domati o violentati. Spesso, ed è il paesaggio più malinconico, l'opera umana permane, ma in rudimenti: è stata interrotta, e il tempo l'ha consumata, resa illeggibile. E' frequente trovare, in collina o in montagna, campi abbandonati, invasi dalle erbacce, ma che portano ancora il segno dell'aratro; a volte il grano o la segale si sono inselvatichiti, e sopravvivono in steli isolati, orfani. Altrove si riconoscono fossati asciutti che non sono certo opere di natura: forse sono frammenti di canali di gronda, forse trincee di guerre dimenticate da secoli. In altri luoghi ancora si trovano miniere abbandonate, e nei boschi strane radure: un tempo, quando il carbone di legna era un importante articolo di consumo domestico, erano sede delle carbonaie, la cui costruzione e conduzione erano arti millenarie che si stavano perdendo.

Per trovare la natura intatta, così com'era prima che l'uomo facesse la sua comparsa, in Piemonte bisogna cercare a lungo, evitando le pianure, intensamente umanizzate. Bisogna varcare la soglia delle poche foreste che ancora rimangono: ma non inoltrarsi troppo, se no si rischia di uscire dalla parte opposta; e non scandalizzarsi se si incontrano, stampate nel fango, le impronte dei pneumatici mostruosi di un trattore, o cartucce di cacciatori, o scatole di sigarette, o lattine di cocacola. E' tempo meglio speso salire al di sopra degli ultimi pascoli: qui praeterit figura huius mundi, ci si trova immersi, a seconda della stagione, nella nebbia, nella neve intatta, fra pietraie macchiate dai licheni, o magari anche fra sterpi e spini. Si prova un senso austero di continuità al pensare che così doveva essere il mondo quando "l'uomo non era". Dove non c'é niente da trovare, né funghi, né selvaggina, né cristalli, è raro incontrare esseri umani: siamo esseri sociali e finalistici, pochi tra noi cercano la solitudine come bene a se stante.

Perché la cerca? Chi la cerca? Non c'é un motivo unico, e spesso coesistono vari motivi. Per reazione all'attrito urbano, all'ossessione delle presenze umane, dei manufatti; nelle città perfino il "verde pubblico" è artificiale, manomesso; non ha più nulla di nativo. Per ritrovarsi pedoni, senza intermediari, senza ruote, in comunione con il suolo: e infatti, compatibilmente con l'ambiente, c'é fra noi chi si scalza per sentire la terra e l'erba. Per ritrovare il silenzio, e qui occorre precisare.

Il silenzio assoluto è artefatto

Il silenzio assoluto è a sua volta un artefatto: lo si può trovare, ad esempio, se si entra da soli in fondo ad una miniera, o in una grotta dove non corra acqua, o nelle camere prive di risonanza che usano gli acustici per le loro misure. Questo silenzio non è umano né terrestre: è sinistramente oppressivo, sa di clausura e di sepolcro e spinge alla fuga; forse perché vi si sente il monito del proprio cuore. Il silenzio che noi cerchiamo non è così severo, è rotto dal vento, da acque lontane, dalle cicale, dai grilli, dai cani in fondo alla valle, dalle campane, dalle voci degli uccelli. A volte, anche dal ronzio di un aereo, ma questo non disturba, così come non disturba, nel mare, il profilo di una nave lontana. Può essere il rombo attutito di un apparecchio ad elica, che suona bonario e pigro come quello di un bombo in cerca di nettare; più sovente oggi è il sibilo di un reattore, otto o dieci chilometri al di sopra di noi, puntiforme, quasi invisibile se non fosse per dalle due scie candide che si lascia dietro. Esse permangono a lungo, per ore; il vento le distorce e le sfuma senza distruggerle; a poco a poco diventano nuvole e si confondono con le altre nuvole. Sono il portato casuale di una innovazione tecnica, ma non deturpano il cielo e non inquinano il pensiero.

Ecco, questo è il punto. Il pensiero vive dappertutto, anche in un filatoio, anche nel ventre di una nave da carico, anche nel traffico delle ore di punta, anche negli uffici, ma è un altro pensiero, costretto, obbligato. Quello di cui abbiamo bisogno, a tratti, per non perderci, è il pensiero lieve e libero dei nostri antenati pastori e agricoltori, a cui erano famigliari i tragitti delle nuvole ed i cammini delle stelle e dei pianeti. Ne abbiamo bisogno per ritrovare noi stessi, non più padroni, ma ospiti del pianeta.

 

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