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Cave, amore e fantasia.

Ritratto di Maria Cantamessa, l'unica cavatrice del Piemonte. "Rispetto e amo l'ambiente, il nostro è un lavoro necessario".

  • Cristina Insalaco
  • gennaio-febbraio 2012
  • Sabato, 7 Gennaio 2012

 

Cristina Insalaco

 

E pensare che voleva fare la filosofa. Maria Cantamessa, 37 anni, è con ogni probabilità l'unica cavatrice del Piemonte. La sua giornata inizia quando s'infila i guanti da lavoro, i tappi alle orecchie, e sale su, sopra l'escavatore. Inizia con le mani sporche di polvere, Maria. «Questo è un mestiere che devi avere nel sangue» racconta lei, che nella cava di porfido "Castagna Morera", in provincia di Novara, trasporta il materiale dalla collina all'impianto da quando aveva 19 anni. Maria è da due anni mamma di Ginevra, è una donna che va al lavoro senza tacchi e rossetto, ma con l'elmetto giallo e gli scarponi. «La nostra è una piccola attività familiare – spiega – mio padre è in continuo movimento tra Piemonte e Liguria, e mia sorella Elisabetta si occupa della parte amministrativa. Solo io lavoro in cava tutto il giorno». È un mestiere duro, un mestiere che fa sudare e fa venire i calli alle mani. Non è un lavoro per donne, forse. Eppure per Maria Cantamessa la vita è dentro questi cinquemila metri quadrati. È dentro il rosso di quelle rocce che la sovrastano. «Qui sono felice – racconta – ho sempre fatto la cavatrice, e non saprei fare nient'altro. Se anche vincessi all'enalotto, mi comprerei una ruspa nuova». Ogni mattina si lega i capelli, indossa la sua tuta blu da lavoro, spacca il porfido con l'escavatore e lo sposta con le pale per frantumarlo. La monotonia non la spaventa. E neppure la solitudine. «Certo, nelle fredde mattine d'inverno vivere qui è un po' alienante, ma non ci si annoia mai. Gli escavatori vanno ingrassati, bisogna cambiare l'olio e riparare i guasti, caricare e scaricare il porfido per i clienti». E quando i macchinari non sono in funzione, in cava c'è solo silenzio. Non ci sono odori, e gli occhi riescono solo a vedere il cielo, il metallo delle ruspe e i giganteschi mucchi di pietre rosse. «Spesso dicono che quello del cavatore è un mestiere che distrugge la natura e la usa per arricchirsi – spiega lei – ma non è così. Noi rispettiamo e amiamo l'ambiente, il nostro è un lavoro necessario». Qui, a "Castagna Morera" non batte mai il sole. «D'inverno vedo la luce per un paio d'ore la mattina, poi per il resto della giornata mi accontento dell'ombra e di tanto freddo», dice lei. Non c'è la corrente elettrica, non c'è la linea telefonica, non c'è un computer. Maria usa la macchina da scrivere e con i clienti prende le commesse su carta e penna. Prima di dedicare la vita all'estrazione del porfido, si è diplomata alle magistrali di Novara. «Ho scelto questa scuola perché era l'unica a durare quattro anni, volevo finire al più presto gli studi per iniziare a fare la ruspista». Del resto questo è sempre stato il suo sogno. «Avevo appena sei mesi quando sono salita sulla ruspa di mio padre, e fin da piccolissima giocavo con i macchinari spenti facendo finta di guidarli», ricorda divertita. Adesso è sposata da quattro anni, suo marito fa l'artigiano, scava in proprio ed è muratore. L'unico rimpianto è forse quello di non avere troppo tempo da dedicare alla bambina, «ma ogni sera, appena torno a casa, ogni secondo della mia vita è suo». In Piemonte le cave oggi attive sono 501, e i cavatori 1362. Un lavoro che ormai non interessa più a nessuno, troppo faticoso e pesante per i giovani che di buttarsi in quest'attività non ci pensano nemmeno. «Avevamo provato a prendere dei ragazzi per assumerli come operai, spiega lei. Loro venivano qui affascinati dall'idea di poter guidare mezzi di duecento quintali, ma appena si rendevano conto che fare il cavatore non è questo, si stufavano e se ne andavano via». Maria ha mai provato a cambiare mestiere? «No, mai». Solida, come le pietre che spacca ogni giorno. E pazienza per la filosofia.

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