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Wilderness, dove la biodiversità corre meno rischi

Uno studio internazionale coordinato da un giovane ricercatore italiano dimostra come le "zone di natura selvaggia" dimezzino il rischio di perdita della biodiversità. Fra queste c'è il Parco nazionale della Val Grande, che si trova in Piemonte.

  • Alessandro Paolini
  • Dicembre 2020
  • Lunedì, 18 Gennaio 2021
Panorama della Val Grande con ruderi e - sullo sfondo - il Lago Maggiore - Foto Antonio Farina Panorama della Val Grande con ruderi e - sullo sfondo - il Lago Maggiore - Foto Antonio Farina

Il Premio "Giovani ricercatori", giunto quest'anno alla sua terza edizione, intende contribuire alla ricerca scientifica in Italia premiando lavori di ricercatori e ricercatrici in ambiti disciplinari diversi, che vanno dall'agricoltura all'ambiente, dall'astrofisica alla biomedicina, dall'ingegneria alla fisica.

Il premio è organizzato dal Gruppo 2003, un'associazione di promozione sociale che riunisce alcuni degli scienziati italiani più citati nella letteratura scientifica (secondo i dati dell'Institute for Scientific Information di Philadelphia). Fra i lavori premiati nel 2020 c'è quello di Moreno Di Marco, ricercatore del Dipartimento di Biologia e biotecnologie "Charles Darwin" dell'Università di Roma La Sapienza, che si è aggiudicato il primo posto nella sezione ambiente con uno studio dal titolo "Wilderness areas halve the extinction risk of terrestrial biodiversity" (Le aree di wilderness dimezzano il rischio di estinzione della biodiversità terrestre) pubblicato anche dalla rivista Nature.

Interessante la motivazione del premio: "L'attuale tasso di estinzione di specie viventi non ha precedenti nella storia recente e si avvicina pericolosamente a quello stimato in periodi noti come fasi di estinzione di massa. La crescente scomparsa di ambienti naturali in un pianeta sempre più antropizzato ne è la causa principale. L'idea di proteggere il maggior numero di aree naturali rimaste sulla terra non è certamente nuova, anche se l'impatto concreto di questo genere di politiche ambientali non è mai stato quantificato in modo appropriato. Il lavoro di Moreno Di Marco e collaboratori fa uso di un approccio modellistico molto innovativo per confrontare il rischio di estinzione di piante vascolari e invertebrati (la frazione della biodiversità terrestre a maggior rischio) in aree di wilderness, riuscendo a dare dimensione quantitativa del ruolo attivo svolto dal sistema di tali aree a scala globale e mettendo in evidenza il loro ruolo nel dimezzare il rischio di estinzione".

L'importanza della "natura selvaggia" per la tutela della biodiversità

Lo studio, condotto da un team internazionale coordinato da Di Marco, ha preso in considerazione le aree di natura selvaggia o "wilderness", dove cioè l'impatto umano è minimo o assente, dimostrandone l'importanza per la conservazione della biodiversità. Partendo dall'esame di piante vascolari e specie di invertebrati, infatti, ha scoperto che il rischio di scomparsa degli organismi viventi all'interno di queste aree è inferiore del 50% rispetto a quelli che vivono al di fuori di esse. Sono quindi zone che consentono di prevenire il rischio di estinzione di molte specie ma che, paradossalmente, rischiano di estinguersi esse stesse. Dal 1990, infatti, sono andati persi globalmente oltre 3 milioni di km quadrati di wilderness (un'estensione paragonabile a quella dell'India) e a tutt'oggi queste aree occupano meno del 20% delle terre emerse del pianeta.

Che cos'è un'area wilderness?

"Le aree di wilderness secondo una definizione internazionale sono contraddistinte da una presenza e da un impatto umani nulli o quasi nulli ed hanno una grande estensione. In Italia e in Europa sono più rare mentre se ne trovano in maggior numero negli altri continenti" spiega Moreno Di Marco.

Al di là dell'importante premio che ha conseguito, qual è lo scopo del suo studio?

"La Convenzione sulla diversità biologica delle Nazioni Unite (cui l'Italia ha aderito e dato seguito con la Strategia nazionale per la biodiversità n.d.r.) aveva proclamato il 2010 come Anno della Biodiversità e indetto per il decennio successivo un Piano strategico con diversi obiettivi fra i quali, però, non compariva la tutela della wilderness. Con il nostro studio diamo un contributo affinchè quest'ultima possa essere inserita fra gli obiettivi da raggiungere nel prossimo decennio".

In Italia esiste dal 1985 l'Associazione Italiana per la Wilderness (AIW) che si rifà al concetto di "natura selvaggia" nato in America nei primi decenni dell'Ottocento e diffusosi nel XX secolo anche nel resto del mondo. L'AIW ha identificato settanta aree in Italia - di cui dieci in Piemonte - che vengono definite come "zone in uno stato morfologico e paesaggistico ancora selvaggio". Sono quindi luoghi prevalentemente privi di strade e di moderne costruzioni anche se la definizione europea è più "addomesticata" rispetto a quello americana, perché da noi anche le zone più selvagge ed impervie non sono rimaste vergini rispetto alla presenza dell'uomo. E' il caso della Val Grande, che fin dal 1983 è stata individuata come una delle aree di wilderness più interessanti a livello internazionale e che dal 1992 è Parco nazionale.

Val Grande, "l'area wilderness più estesa delle Alpi"

In Val Grande le tracce della presenza umana sono, in realtà, evidenti: mulattiere, alpeggi, terrazzamenti, vestigia di teleferiche, testimoniano come l'uomo nei secoli passati abbia intensamente abitato e frequentato la valle. La wilderness in quest'area è quindi da intendersi nell'accezione di luoghi ormai abbandonati, senza strade, con scarsi insediamenti permanenti o stagionali, dove la natura sta lentamente recuperando i suoi spazi. Un parco selvaggio e isolato, dunque, dove sperimentare il contatto della natura nel silenzio e, magari, assistere allo spettacolo delle stelle di notte, approfittando dell'assenza di inquinamento luminoso, una condizione oggigiorno davvero rara, con la possibilità di pernottare in uno dei bivacchi realizzati dall''Ente Parco.

"Il parco ha un'estensione di 15mila ettari, pari a circa 150 kmq., ed è quindi una delle aree di natura 'selvaggia' più grandi delle Alpi" spiega Cristina Movalli, Responsabile del Servizio per la conservazione della natura, ricerca, promozione ed educazione ambientale dell'Ente parco.

"La wilderness, come la intendiamo noi, è un insieme di valori, culturali e storici oltre che naturalistici. Su questi territori viveva in passato una comunità numerosa. Ne restano tracce evidenti nei 180 siti che abbiamo censito, fra alpeggi, piccoli insediamenti e terrazzamenti ormai abbandonati. Qui sopravvissero migliaia di contadini e pastori grazie ad un'economia di pura sussistenza che sfruttava le risorse della natura, come il legno, utilizzato a Milano per realizzare i ponteggi e le strutture della Fabbrica del Duomo. E' incredibile come in meno di un secolo, a partire dalla seconda guerra mondiale, queste terre si siano così rapidamente spopolate. Oggi all'interno del parco si trovano solo tre frazioni, Cicogna, Colloro e Genestredo e tra queste Cicogna, un tempo abitata da centinaia di persone, conta sì e no una ventina di residenti!".

"Le civiltà che abitavano qui ci appaiono oggi remote – prosegue Movalli - al punto che Fabio Copiatti, nel suo libro 'Cicogna ultima Thule', parla di una 'Pompei alpina'. La natura, rigogliosa grazie alle frequenti precipitazioni, non è più lavorata e modificata dall'uomo e sta cancellando a poco a poco le sue tracce. Il turismo che visita la Val Grande non è certo di massa, io lo definisco 'primordiale': chi viene qui sa di non trovare agi e comodità, a partire dall'accesso al parco. Anche se non siamo lontani dalle grandi città e dai laghi, il territorio del parco è raggiungibile con qualche difficoltà, attraverso passi montani, dato che è una sorta di imbuto: la vallata centrale è circondata a 360° da vette alte fino a duemila metri. Anche la natura è ancora relativamente sconosciuta. Il Parco è nato soltanto nel 1992 e da allora svolgiamo un'attività di ricerca, anche all'interno di progetti europei, che di tanto in tanto ci porta a scoperte importanti. Tra le tante specie, animali e vegetali, ci sono per esempio alcuni rari coleotteri, come il Carabus lepontinus, endemico del Monte Zeda, oppure la Rosalia alpina, che sono compresi negli elenchi delle specie strettamente protette a livello europeo" conclude Cristina Movalli.

Per capire meglio cosa si intenda per "area di natura selvaggia" in Val Grande può essere utile la visione di due documentari realizzati da Marco Tessaro e disponibili sul sito dell'Ente parco. Il primo, "Wilderness e Biodiversità - Strategie future di conservazione per il Parco Nazionale della Val Grande", racconta i processi ecologici ed i problemi successivi all'abbandono della valle, e prova ad individuare strategie future per la conservazione della natura; "Terre di mezzo" che ha partecipato a numerosi festival cinematografici, narra le vicende di questi luoghi, tra storia, antropologia e natura.

Per approfondimenti:

"Cicogna ultima Thule" di Fabio Copiatti (2020, 252 pg.) - Collana gli Ellebori, Monterosa Edizioni

"Pensare la wilderness" Raccolta di interventi sul tema della "Wilderness" (127 pag). - Ed. Fondazione Monti – Testi di Alessandro Gogna, Vittorio Ingegnoli, Emilio Padoa Schioppa, Enrico Rizzi, Teresio Valsesia, Luigi Zanzi.

"Val Grande ultimo paradiso" di Teresio Valsesia (2008, 280 pg.) - Edizioni Alberti

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