«Spero di morire prima di veder morto il Po» si legge in uno degli ultimi scritti di Riccardo Bacchelli. L'agonia è stata, per un fiume millenario, rapida; quindici anni fa il Po era ancora un Nilo, invadeva secondo le stagioni le terre di golena e le fecondava, dico le terre comprese fra gli argini di maestra, alti, possenti, rinforzati ogni anno e gli argini di ripa, pian piano invase dai coltivatori padani che vi hanno costruito le loro case, le loro "grange" o piccoli borghi, mettendo nel conto che ogni tanti anni, magari cinquanta, magari dieci il fiume dà e toglie, arricchisce e impoverisce. Gente di Po, comunque, incapace di abbandonare il suo fiume, la sua storia. Ora dopo una esondazione – sono belli i nomi fluviali – restano sul terreno chiazze di olio, macchie calcinate di residui chimici. «Solo pochi anni fa,» mi dice un uomo del fiume, «andare per i pioppeti inondati era stupendo, si passava in barchino tra i filari nella luce ombra della piantagione, più che una violenza era
una silente, pacifica comunione di acque e di piante. Ora, appesi ai rami più bassi, trovi i sacchetti di plastica, i nastri di plastica e sembra di stare in un film dell'orrore, ti aspetti che compaiano mostri esangui.»
Ma anche i pallidi eleganti pioppi hanno la loro parte nel disastro del Po. Li hanno piantati fino alla riva del fiume e non sono alberi che rafforzano l'argine, non si piegano all'onda come i canneti o i salici, non hanno radici forti come gli ontani, sono piante di poche radici sradicabili, per proteggerli si è imprigionato il fiume nei cassoni dei "bolognini" o delle prismate, difese dure che fanno impazzire la corrente. E inquinano, i tronchi sono cosparsi da insetticidi, la chimica arriva nel terreno, bisognerebbe arretrarli di almeno cento metri, ma quel che è fatto è fatto, la barriera verde sta sulle rive. L'agonia per un fiume millenario che non era mai sostanzialmente cambiato è stata rapida, questione di venti, di quindici anni. Non molto tempo fa i pescatori si facevano la minestra con l'acqua del fiume, prendevano l'acqua con la loro tazza di legno per berla. Ora non se la sentono più di entrarci a gambe nude, si proteggono con stivaloni e tute. L'inquinamento è salito negli ultimi cinque anni dai quattordici milligrammi per litro ai cinquanta. Pochi anni fa la gente del Po anche benestante faceva le vacanze sul fiume, preferiva i suoi ghiaioni alle spiagge affollate di Viareggio o di Rimini, conosceva gli accessi, sapeva tagliare le frasche con cui fare dei ripari al sole, non sentiva come Gioan Brera nessun complesso edipico verso il padre fiume feroce "rombante nelle notti di piena"; semmai, adesso, il complesso è verso il
padre sporco. Le società fluviali avevano nomi diversi ma sempre abbinati a "canottieri" e il legame è così antico che anche se ci si bagna in piscina in club aperti di recente a quindici chilometri dal fiume sempre canottieri sono.
Negli ultimi anni Magistratura del Po e Autorità di bacino, che fanno di Parma la capitale fluviale, hanno lavorato bene a sistemare "il canale di corrente", il canale navigabile fino a Brescello, ma nella zona lombarda su cento lavori progettati e finanziati anche dalle Cee ne sono stati compiuti due, si sono moltiplicate invece le zone protette perché sovvenzionate dalle regioni e dallo stato. Sia stato il lungo spezzettamento del fiume fra i principati, sia che noi italiani siamo negati a lavorare in collettivo, ma anche oggi una pianificazione dell'intero bacino incontra grosse difficoltà. I tecnici dell'Autorità di bacino sembrano sovrastati da compiti più grandi di loro. Dicono per esempio: «Lo sfruttamento
idrico del Po è aumentato a dismisura e nessuno sa quali e quante concessioni siano state date, cosa paghino i concessionari, quanta acqua prendano. C'è da fare un enorme lavoro di censimento. Poi ci sono gli inquinamenti degli allevamenti sui suini e bovini. Il 50 per cento dei suini italiani sono concentrati nella zona centrale, cinque milioni di suini ognuno dei quali produce escrementi in misura tre volte superiore a quella di un uomo». Così fra escrementi animali e quelli umani dei sedici milioni che gravitano sul bacino, siamo a un inquinamento come se qui vivessero centosedici milioni di persone. Anche qui il censimento è difficile, bisogna capire quali allevamenti sono su un terreno poco impermeabile in cui la vegetazione fa in tempo a riassorbire le sostanze chimiche e quali invece su uno che scarica tutto nella falda. Arrivano nel Po anche le acque da risaia, da Torino alla Lomellina il Po dà acqua con il canale Cavour e poi se la riprende inquinata dai diserbanti. Fra la Dora e il Ticino e il Mincio c'è come un immenso piano inclinato verso il Po e verso il mare, forse sarà per questo che i grandi affluenti della riva sinistra dalla Dora, alla Sesia, al Ticino, all'Adda, all'Oglio, al Mincio piegano tutti verso il mare. Ma c'è chi pensa che sia dovuto al fatto che scaricano i loro materiali nei laghi e hanno acque pulite, aggressive. L'agonia del fiume è anche quella dei suoi pesci. Non molti anni fa al mercato
di Piacenza vendevano trance di storione di Po; oggi se ne trovano ancora: non i giganti di quattro metri di cui Plinio il Vecchio per Paduam navigante, seguiva le scie argentee, se ne pescano ancora nelle lanche di acqua tiepida dove vengono a digerire il pasto di carpe e di cavedani, ma non superiori ai due metri.
Sono scomparse anche le anguille di Ongina, dove una ostessa con la faccia di Giuseppe Verdi le friggeva croccanti e dolci mentre il marito era addetto al taglio perpetuo dei culatelli di Zibello, le cose miracolose che maturano solo all'aria umida del Po, come i prosciutti e gli stradivari. Nel fiume si pescano ancora lucci, scardole, cavedani, carpe ma spesso "di gusto avariato". Imperversa il pesce siluro, lo squalo del Po. Venti anni fa non c'era o era rarissimo. Dicono che questo silurus glanis descritto dai naturalisti come "pesce tirannico, crudele, vorace" sia arrivato dal Baltico, forse seguendo le immondezze di una nave o forse immesso in un allevamento da uno che sperava di venderne la carne, tenera nel primo anno. I pescatori lo odiano, molti vanno col fucile in barca per sparargli, è nata una mitomania mostruosa sul "siluro". Un tale di Fidenza mi ha detto che ne è stato pescato uno che aveva dentro una testa d'uomo e una mano di donna con due anelli. Un benzinaio di Busseto mi ha detto che «mangia le galline, se vede una gallina sulla sponda la azzanna». Le fantasie corrono, nei giorni scorsi su alcuni giornali si è letto che sul Ticino sotto Pavia era stato pescato un piraña, il pesce assassino del Rio delle Amazzoni, ma era un pesce gatto gigante.
Giorgio Bocca (Cuneo, 28 agosto 1920 – Milano, 25 dicembre 2011) è stato scrittore e giornalista. Si formò durante la Resistenza, cui partecipò come partigiano. Per la Gazzetta del popolo, Il Giorno, la Repubblica, L'Espresso ha scritto articoli e reportage dal taglio critico e ispirato alla tradizione azionista. Ha svolto anche ricerche storiche (Storia dell'Italia partigiana, 1966; Il terrorismo italiano 1970-1978, 1978); dagli anni Novanta ha esercitato una forte critica del mondo economico e politico: Il secolo sbagliato (1990), Piccolo Cesare (2002), Basso impero (2003). La sua attività di saggista è proseguita anche negli anni successivi con opere d'inchiesta sulla storia e la realtà politica e sociale italiana; tra di esse occorre segnalare L'Italia l'è malada (2005), Napoli siamo noi (2006), Le mie montagne (2006), È la stampa bellezza! La mia avventura nel giornalismo (2008), Annus horribilis (2010), Fratelli coltelli (2010). Nel 2011, pochi mesi prima della sua morte, è stato edito il libro-intervista La neve e il fuoco, di L. Musella e M. Pace Ottieri, in cui B. ha ripercorso la sua storia parallelamente a quella del Paese, mentre nel gennaio 2012 è stato pubblicato postumo il volume Grazie no. Sette idee che non dobbiamo più accettare, che ne costituisce una sorta di testamento ideale.