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Un buco nell’acqua

Un autorevole giornalista se la prende con le cave (e con il Parco) del Po torinese. Ma, cifre alla mano, le minacce per il grande fiume non arrivano da lì

  • Mauro Pianta
  • maggio 2010
Mercoledì, 12 Maggio 2010

Giorgio Bocca, il Grande Vecchio del giornalismo italiano, ha sparato ad alzo zero contro le cave presenti nel tratto del Po compreso tra Casalgrasso e Moncalieri. Lo ha fatto con un articolo pubblicato da Repubblica lo scorso 27 febbraio, articolo che prendeva le mosse dalla vicenda dell'inquinamento del Lambro e dalla querelle sulle crescenti devastazioni ai danni del "padre" Po.
Bocca, con la solita, efficace, verve polemica, si è scagliato contro i rischi derivanti dall'esistenza di gru, dune sabbiose, camion, baracche e mostruose scavatrici che conferiscono al territorio una fisionomia da bolgia dantesca. Eccola, la prima raffica del partigiano-giornalista: «Quelle cave, con voragini fino a duecento metri, sono presenti a centinaia in un territorio che dall'alto sembra un groviera. C'è il rischio che le acque del Po sfondino le paratie di terra e si uniscano alle acque delle cave con un caos idrogeologico imprevedibile». Poi ecco arrivare la seconda mitragliata: «Le acque delle cave inquinatissime potrebbero penetrare nella falda acquifera che fornisce il settanta per cento dei consumi della metropoli torinese».
Un doppio affondo, dunque. Ma, al di là delle condivisibili valutazioni sull'estetica del sistema-cave, quanto c'è di vero nelle affermazioni di Giorgio Bocca? Il vecchio combattente ha davvero colto nel segno?
A sentire tecnici regionali, docenti universitari e vertici del Parco fluviale del Po torinese (nel cui territorio si trovano le undici attività di estrazione in questione), questa volta Bocca avrebbe clamorosamente mancato il bersaglio.

Primo: nel caso di un'eventuale esondazione del Po, assicurano gli esperti, i cosiddetti laghi di cava (i bacini che nascono dall'estrazione di ghiaia e sabbia) "ammortizzerebbero" la piena raccogliendo un po' dell'acqua fuoriuscita. Secondo: le acque dei bacini non sono "inquinatissime" essendo monitorate trimestralmente da almeno vent'anni. Terzo: le profondità delle cave oggetto della polemica non superano i 50 metri, mentre le falde acquifere protette si trovano ad almeno 80, 100 metri e dunque non vengono intercettate.
Intendiamoci: le criticità sul territorio preso in considerazione dall'articolo non mancano. Ma la cave non c'entrano. È sufficiente, come ha fatto Piemonte Parchi l'8 marzo scorso, una veloce ricognizione per rendersene conto. Le quattro cave, per esempio, visitate tra Casalgrasso, Carignano e Moncalieri non assomigliavano per niente a un paradiso degli ambientalisti, ma nemmeno presentavano particolari problemi. Solo in un caso ("Cave Torino" a Carignano) la distanza tra il bacino e il fiume non rispettava il limite fissato (150 metri). Epperò si tratta di una situazione che vede una disputa legale fra il proprietario, il comune e l'ente parco, trascinatasi ormai da anni.

Più grave è risultato imbattersi in una discarica abusiva a Carignano nel cuore della riserva naturale dell'Oasi del Po morto, giusto sulle sponde del fiume. Oppure inciampare a Moncalieri, proprio sotto la tangenziale, a due passi dall'area del Molinello, nella classica montagna di pneumatici e rifiuti. Malcostume. Inciviltà. Un degrado con il quale il direttore del parco, Ippolito Ostellino, deve fare i conti quotidianamente: «Sull'argomento invio ogni giorno dalle 10 alle 15 segnalazioni ai comuni, ma come ente, a meno che i miei guardiaparco non colgano sul fatto i responsabili, non posso fare niente. Spesso, poi, si tratta di terreni appartenenti a privati». Un malcostume che non c'entra nulla con le attività di estrazione. «Infatti non capisco – riprende Ostellino - come un giornalista del calibro di Bocca non abbia verificato le informazioni, evidentemente datate, che gli hanno girato. Il suo articolo non corrisponde alla realtà e non tiene conto dell'enorme lavoro svolto da almeno 10 anni da Regione, Provincia, comuni e Arpa. Le aziende estrattrici, avendo accettato le regole del Piano del Parco, collaborano nell'attuazione dei progetti di recupero, progetti che prevedono anche la prossima cessione a patrimonio pubblico delle stesse aree, una volta chiuse le attività presenti». Le imprese, insomma, possono lavorare solo dopo aver presentato progetti autorizzati dal Parco e dopo aver messo in cantiere attività di tutela e valorizzazione del paesaggio fluviale. Occorre anche ricordare che lo stesso Parco ha diritto a circa 0,18 e per ogni metro cubo estratto, pari a circa 400mila euro l'anno. «Cifre – dichiara Ostellino – grazie alle quali riusciamo a finanziare autonomamente le attività di educazione ambientale, di promozione e comunicazione dell'ente».
Diversa, ovviamente, la posizione di Vanda Bonardo, presidente di Legambiente Piemonte e Valle d'Aosta: «Ho qualche perplessità sulle attività di recupero ambientale messe in piedi da queste aziende e sarei cauta nell'attribuire loro la patente di benefattori dell'umanità. In ogni caso, al di là di ciò che scrive Bocca, la cave sono e restano delle ferite aperte. E attraverso le ferite, si sa, passano i microbi. Le acque dei bacini sono effettivamente pulite? Chi va a controllare quanto scavano quei signori?».

Il professor Domenico De Luca insegna idrogeologia alla facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali dell'Università di Torino. De Luca usa poche, misurate, parole: «I dati in nostro possesso confermano come le acque delle cave piemontesi non siano affatto inquinate». Interviene anche Piero Della Giovanpaola, dirigente regionale del settore pianificazione e verifica attività estrattiva: «Giorgio Bocca esprime una visione apocalittica, esagerata, quasi terroristica. È chiaro come non possieda nozioni minime di geologia e di idraulica, altrimenti non avrebbe scritto quelle cose. C'è un monitoraggio costante sui flussi del Po, vengono approntati modelli sull'andamento del fiume. In caso di inondazione possiamo sapere dove potrebbero andare a posizionarsi le masse d'acqua e agire di conseguenza. Sulla purezza delle acque, poi, i controlli sono severissimi...».
Spiegano ancora i tecnici degli uffici regionali del settore: «Dal punto di vista chimico le acque dei bacini vengono monitorate ogni tre mesi da circa vent'anni. Periodicamente vengono eseguite anche analisi biologiche e dei sedimenti, oltre che numerose fotografie aeree. Tutti i parametri previsti sono sempre risultati nella norma. Quanto ai controlli sulla profondità degli scavi, questi sono eseguiti annualmente su almeno quattro sezioni, con uno scandaglio regionale e in presenza dei tecnici del parco, della regione e del comune interessato. E in ogni caso la profondità delle cave del territorio preso in esame va da pochi metri lungo le sponde (2-7 metri) sino ai massimi compresi tra 20 e 50. Oltre tali misure mai nessuna cava è stata autorizzata, né si autorizzano profondità che potrebbero intercettare acque sotterranee protette. Acque che di solito si trovano a 80/100 metri».
E le cave profonde 200 metri citate sempre dall'articolo di Giorgio Bocca? «Una sciocchezza, perché scavare a tali profondità avrebbe un costo enorme che renderebbe del tutto antieconomica l'estrazione». Sarebbe, giusto per restare in tema, un buco nell'acqua.

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