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Le relazioni pericolose

Mostrano la vita degli animali e servono a sensibilizzare il pubblico. Ma i reportage sulla natura non sono a “impatto zero” per i protagonisti dei filmati. Scopriamo il perché

  • Cristina Giacoma Simone Pollo
  • giugno 2010
  • Domenica, 13 Giugno 2010

I documentari naturalistici, sia nella forma cinematografica che in quella fotografica, sono un mezzo educativo e informativo potente. Per molte persone rappresentano una fonte di conoscenza privilegiata della vita di animali che, nella maggiore parte dei casi, non verranno mai incontrati dal vivo. Inoltre, il reportage naturalistico è certamente uno strumento efficace di sensibilizzazione del grande pubblico nei confronti dei temi della conservazione dell’ambiente e della fauna. Per queste ragioni, la produzione e la diffusione di documentari naturalistici è senza dubbio un fatto apprezzabile, anzi auspicabile. Attraverso di esso, infatti, si realizzano beni moralmente significativi, come l’educazione, la conoscenza, lo sviluppo dell’attenzione alle altre specie e, non ultimo, lo svago e il divertimento. Bisogna tuttavia sottolineare che la produzione e la diffusione dei reportage sollevano alcune questioni morali che meritano di essere analizzate. Contrariamente a quanto spesso può sembrare allo spettatore, un documentario naturalistico non si ottiene semplicemente mandando uno o più operatori a riprendere gli animali così come vivono “in natura”. La produzione di un reportage naturalistico è un’attività ben più complessa e articolata. Anzitutto, ci sono casi in cui gli animali non sono propriamente allo stato libero. Protagonisti dei documentari, infatti, sono spesso animali in condizione di cattività o di semi-cattività (come quelli ospitati in parchi e santuari). In secondo luogo, le riprese non si ottengono solo osservando e filmando gli animali nei loro comportamenti. A volte gli animali possono essere attirati nei luoghi di ripresa con dei “trucchi”, come l’uso di esche alimentari. Questi trucchi, ovviamente, facilitano le riprese attirando l’animale a portata di obiettivo e facendogli esprimere il comportamento desiderato. Questi stratagemmi sono solo apparentemente innocui. Nel caso in cui vengano utilizzati su animali non abituati alla presenza umana, essi possono rappresentare un pericolo per il loro benessere e la stessa vita. Si tratta di interferenze nel comportamento che possono avere come conseguenza, ad esempio, l’alterazione di equilibri nel gruppo sociale o la trasmissione di malattie. Inoltre, la presenza umana sul campo (che non è sempre dissimulabile) può avere come effetto la cosiddetta “abituazione”, ovvero sia lo sviluppo di una dimestichezza con gli umani che può comportare rischi. Gli umani, infatti, non sono sempre amichevoli come i reporter naturalistici o gli etologi. Inoltre l’avvicendarsi di troupe sul campo può, nel medio e lungo termine, rappresentare una minaccia per l’ambiente in cui vivono gli animali. Anche con le migliori accortezze, la presenza umana (soprattutto se prolungata nel tempo) non è mai a “impatto zero”. Constatare che la produzione di un reportage naturalistico può avere effetti negativi (anche molto negativi) sugli animali che si riprendono, deve forse portare alla conclusione che sarebbe meglio non produrre documentari, per tutelare gli animali? Una soluzione così radicale non è giustificata e neppure necessaria. Ciò che è richiesto, invece, è l’elaborazione di linee di condotta generali per gli operatori e un’attività di valutazione etica e tecnica caso per caso nei contesti di produzione. In generale, infatti, possiamo dire che ci sono buone ragioni etiche che sostengono la produzione dei documentari. La sensibilizzazione del pubblico ai temi della vita animale e della conservazione ha degli effetti positivi sulla vita e il benessere degli animali stessi (anche se difficilmente quantificabili nel breve periodo). Come negli altri contesti di relazione fra umani e non, nei quali ha fatto il suo ingresso la riflessione morale, è richiesta una valutazione etica generale di queste relazioni, nonché l’elaborazione di linee guida che gli operatori possano applicare nelle procedure concrete. In queste linee di condotta dovrebbero trovare spazio principi che aiutino i produttori di documentari a riconoscere le situazioni nelle quali il benessere degli animali può essere messo a rischio e a operare in modo conseguente. È auspicabile che, come avvenuto in altri contesti di relazione fra umani e non, i professionisti del settore si attivino per elaborare principi e regole condivisi a livello internazionale, coinvolgendo anche altre figure professionali come filosofi, etologi, veterinari ed esperti di conservazione faunistica e ambientale.

Cristina Giacoma è professore di Zoologia, membro del Comitato di Bioetica d’Ateneo e presidente del Corso di laurea magistrale in Evoluzione del comportamento animale e dell’Uomo dell’Università di Torino - Dip. Biologia Animale e dell’Uomo.

Simone Pollo è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi filosofici ed epistemologici, “Sapienza” Università di Roma; docente di “Etologia applicata”, Università di Torino e di “Etica delle scienze”, Università della Tuscia.

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