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Dall'orto dei semplici alla medicina monastica

"O uomo, guarda l'uomo: egli contiene in sé il cielo e le altre creature; è una forma e in lui tutte le cose sono implicite. È Uno e tutte le cose nascoste dentro di lui. L'uomo è il recinto delle meraviglie di Dio" Ildegarda di Bingen.

  • Loredana Matonti
  • Maggio 2011
  • Lunedì, 16 Maggio 2011

La malattia, spettro di una delle paure umane più ataviche, spinse l'uomo antico a trovare una soluzione nella Natura, secondo la visione pregna della concezione animistica e religiosa di allora, rispecchiata anche nelle erbe: "se nella natura risiede la causa del male in essa risiederà anche il rimedio". L'empirismo magico-religioso degli antichi fu gradatamente sostituito dal razionalismo greco e poi romano; alle malattie si attribuivano cause obiettive, affrancandole dalla soggezione magico religiosa, ma molto più tardi, nel Medioevo, la medicina e la religione strinsero un nuovo connubio.
Nelle piante non si ravvisava tanto la relazione causa-effetto tra composizione e attività farmacologica, quan­to piuttosto un ruolo predestinato delle stesse, un'ac­cettazione fiduciosa della vis medicatrix naturae del Creato (l'antico approccio che vedeva nella natura il miglior medico).
Proprio all'interno delle mura dei monasteri, in particolare quelli benedettini, si riaccesero l'interesse e lo studio delle opere naturalistiche e mediche di scrittori come Catone (De agricoltura), Plinio il Vecchio (Naturalis Histo­ria), Dioscoride (De materia medica) e così anche l'attenzione per la coltura dei "semplici" (in latino medievale medicamentum simplex) ovvero le erbe medicinali. Nella tradizione monastica d'altronde, lo studio di queste ultime e la loro coltivazione rappresentavano attività talora indispensabili per la sussistenza stessa del monastero, isolato dal contesto sociale per motivi di scelta religiosa, ma spesso anche a causa di guerre, incursioni piratesche, pestilenze. Uno dei primi Hortus simplicium o Hortus medicus (detto anche viridarium nell'Alto Medioevo) fu fondato da Cassiodoro, già consigliere dell'imperatore Teodorico, che con la caduta dell'Impero Romano si ritirò dalla vita politica.
Appassionato di medicina, scrisse le Istitutiones divinarum et humanorum, in cui raccomandava ai monaci di coltivare le piante medicinali e di studiare, trascrivendo e miniando, le fonti bibliografiche del passato. Il giardino delle piante medicinali o Hortus sanitatis, assunse significati spesso simbolici. La malattia da curare non era solo quella fisica, ma anche dell'anima, presupposti che attribuivano molta importanza alla valenza spirituale del rimedio, in quanto dotato di un imprimatur divino. Una volta essiccate, le erbe venivano conservate nell'armarium pigmentariorum, un armadio dalla robusta struttura, chiuso in modo tale da non lasciar filtrare troppa aria nè luce, per mantenere inalterate le loro proprietà terapeutiche. Esse venivano poi confezionate in prodigiosi decotti e sciroppi, destinati non soltanto alla cura dei monaci, ma anche degli ammalati che avessero bussato alla porta del convento. Al monacus infirmarius, talora detto anche monacus medicus, il compito di assistere i bisognosi di transito, a volte accolti in una vera e propria strutture assistenziale, l'hospitium. Malati, appestati, poveri, viandanti e pellegrini, tutti trovavano qui un punto di appoggio in cui riprendere le forze, quasi fosse una seconda casa. Come supporto logistico ogni grande monastero possedeva anche una farmacia, di fatto un laboratorio artigianale, dove venivano realizzati medicamenti di grande efficacia. Le farmacie monastiche che raggiunsero livelli di grande rinomanza furono tante; per citarne qualcuna, si ricordano quelle di S. Gallo, di Casamari-Trisulti, di Camaldoli, di Praglia. E, strano a dirsi per quegli anni, la trattatistica nel Medioevo non fu prerogativa dei soli uomini. Anche le donne scrissero di medicina, come l'illustre Ildelgarda Von Bingen, badessa di un monastero benedettino posto sulle rive del Reno, in Germania, che, coniugando fede e scienza, si dedicò allo studio dell'uomo e del cosmo. La sua opera si presenta come un trattato di medicina naturalistica permeata di spiritualità: la malattia, secondo Ildelgarda, era il risultato della separazione dall'Unità. Grazie alla sue "visioni", realizzò tra il 1150 e il 1160 uno dei più importanti trattati di erboristeria e storia naturale, il Liber Simplicis Medicinae e il Liber causae et curae. Ella raccomandava ad esempio la mentuccia per la cefalea e il mal di stomaco, il cumino per la nausea, il tanaceto per la tosse e raffreddore, l'achillea per le emorragie, ancor oggi impiegate per tali scopi.
L'aggiornamento in campo sanitario avvenne anche grazie alle opere arabe che arrivarono nei monasteri, che divennero così fulcro di differenti culture, ma il sapere classico e quello arabo vennero mirabilmente amalgamati solo nella Scuola Salernitana.
In origine probabilmente collegata ad un centro monastico, si affermò successivamente come struttura laica, la cui fama raggiunse tutto il mondo conosciuto, dettando fondamenti di terapia, igiene e nutrizione, ai quali si attennero per secoli moltissimi medici. La Scuola ebbe un apogeo intorno al XI-XII secolo e fu, allora, l'unico centro culturale pubblico abilitato a rilasciare il titolo di dottore. Fu l'inizio del tramonto dell'attività assistenziale dei monaci. Molta strada era stata percorsa dai tempi di Cassiodoro, che aveva introdotto nella formazione monastica lo studio della medicina; col fiorire delle Università, la società civile stava cambiando e la figura del medico era il segnale emergente del rinnovamento. I tempi erano ormai maturi anche per lo sviluppo delle speziere laiche, antenate delle attuali farmacie. E anche gli Orti dei Semplici cambiarono, venendo realizzati anche da strutture private e laiche o con funzione didattica; è solo nel '500, man mano che si rendeva più impellente la necessità di un'accurata verifica dell'identità della specie usate in medicina, che le varie università fondarono i primi Orti botanici.
Lo spessore culturale e l'autonomia nella preparazione dei vari rimedi delle farmacie conventuali è confermata dalle testimonianze a noi giunte. Ancora oggi, in alcuni monasteri, come quello di Camaldoli, è tuttora conservato l'antico e affascinante laboratorio galenico.
Dobbiamo proprio alla filosofia conservatorista dei monaci e al loro modo di vedere la vita come un continuum, il fatto che molte preziose conoscenze antiche di vari medicamenti siano giunte fino ai giorni nostri. Gli Osservanti dell'Aracoeli a Roma, ad esempio, confezionavano di routine teriaca e il mitridato, due dei più famosi e prescritti medicamenti antichi.
Altri esempi di preparazioni più moderne, di cui ci è giunta testimonianza, vanno dall'acqua profumigera (per lenire i dolori), allo sciroppo allo ioduro di ferro (contro mal di cuore, asma e per le convalescenze) alla ferrochina (inappetenza e anemia), mentre la celeberrima Tintura Imperiale (o Gocce Imperiali) dell'abbazia di Casamari, "energico" digestivo, vantò tra i suoi ammiratori addirittura il poeta Gabriele D'Annunzio, il quale così ne decantava le virtù: "essenza tra il mistrà e l'assenzio con altri succhi medicinali. È squisitissima, poche gocce bastano a trasmutare un bicchiere d'acqua in una specie di opale paradisiaca".
Certamente ognuno ha i suoi gusti, ma c'è da scommettere che per altri la "squisitissima essenza", coi suoi ben 90 gradi alcolici, potrebbe risultare meno gradita che all'eccentrico vate.

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