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Il tempo dell'alluvione

Non è l'uomo la causa dell'alluvione, anzi, essa è un fenomeno naturale comune. L'uomo, in realtà, ne subisce solo le conseguenze; è qui che egli può agire adottando un piano urbanistico responsabile e adatto al proprio territorio.

  • Luca Mercalli
  • Aprile 2023
  • Mercoledì, 5 Aprile 2023
Il centro di Garessio (CN) devastato dall'alluvione nel novembre 2016 - Foto arch. Comune di Garessio Il centro di Garessio (CN) devastato dall'alluvione nel novembre 2016 - Foto arch. Comune di Garessio

Al mattino di venerdì 13 ottobre scorso il cielo è coperto ma in pianura pioviggina con poca convinzione. Le carte di previsione emesse dai modelli numerici di simulazione dell'atmosfera disegnano tuttavia linee di colore a fondo scala: con il vento da sud-est e il blocco anticiclonico sui Balcani che impedisce lo spostamento della perturbazione, le piogge alluvionali sulle Alpi occidentali sono assicurate. Su Internet partono i primi messaggi d'allarme (è la prima vasta alluvione italiana a essere vissuta sulla rete), poi le telefonate concitate tra lo stupore e l'attesa s'incrociano nelle vallate alpine, da Ceres a Ceresole, da Gressoney a Domodossola, dove la pioggia diviene di ora in ora più intensa (è anche l'alluvione dei telefoni cellulari, che grandi aiuti hanno dato alle comunicazioni d'emergenza, a differenza delle televisioni, che prima e durante l'evento trasmettevano fesserie). Inizia così la storia di "Josefine" la depressione atlantica così battezzata dal servizio meteorologico tedesco, che per tre giorni stringerà d'assedio il nord-ovest d'Italia trasferendo poi in tutto il bacino del Po una possente onda di piena. Tra sabato e domenica la tempesta infuria sulle Alpi, il forte vento da levante sferza i boschi, schianta le piante e sospinge contro i rilievi un'imponente massa d'aria tiepida di provenienza africana. Tra continui tuoni e fulmini, il carico d'umidità mediterranea si riversa sotto forma di nubifragi fino ad alta quota, la neve rimarrà confinata per gran parte dell'episodio oltre i 3000 metri, convogliando verso valle miliardi di metri cubi d'acqua, almeno 4, secondo una stima grossolana, dalla Val di Susa al Lago Maggiore. La sera di lunedì 16 ottobre, quando ormai si fa la conta delle devastazioni tra il rumore degli elicotteri di soccorso, i pluviometri hanno totalizzato piogge fino a 700-800 mm, tra Ossola e Sempione, zona funestata da una frana mortale in territorio svizzero, e ancora 600-700 mm tra Valli di Lanzo e Canavese, 450 nella martoriata Cogne, cuore del parco del Gran Paradiso, 300-400 sulla fascia prealpina a nord del corso del Po, e circa 200 in pianura. Sono quantitativi d'acqua che eguagliano in molti casi quanta ne cade mediamente in un anno. Alessandria, ad esempio, ha una piovosità normale di 600 mm, Aosta 500, Cogne 750. Valori eccezionali? Presi singolarmente, ora si, ora no, dipende dalla località. A Noasca, in Valle Orco, i 640 mm misurati in tre giorni non hanno eguali dal 1913, ma nella non lontana Ala di Stura presentano alcuni casi dello stesso ordine di grandezza. Insomma, le valutazioni vanno fatte a scala geografica regionale, e forse qui si rivelerà l'eccezionalità, nell'ampia area coinvolta contemporaneamente da quantitativi di pioggia così rilevanti. Ma proprio dalla pioggia nascono i luoghi comuni di chi, improvvisatosi climatologo, idrologo o geologo, pronuncia giudizi tranchant che nemmeno gli addetti ai lavori oserebbero pensare. "Basta un paio di giorni di pioggia e subito è una catastrofe": conosciamo troppo poco dell'evoluzione a lungo termine dell'intensità delle precipitazioni per poter impostare uno studio statistico serio sull'eventuale accresciuta frequenza di questi fenomeni, sta di fatto che "questo" paio di giorni ha regalato piogge ben lontane da ciò che intendiamo per normalità. S'è sentito attribuire colpe ai disboscamenti, ad onta delle rigogliose foreste che ricoprivano i versanti a monte di Pollein o di Lillaz, scivolate a valle insieme con il sullo e la roccia. S'è sentito parlare di mancata manutenzione dei canali di drenaggio, di abbandono dell'agricoltura di montagna - fatti verissimi - ma che poco o nulla hanno a che fare con il corso di un'alluvione. Domenica 15 ottobre, nel sottobosco di faggete secolari tra Viù e il Colle del Lis, si vedevano nascere furibondi torrenti ad ogni lieve accenno di pendenza, altro che ripulire le foglie dai fossi! E le colate di fango per fluidificazione dei suoli comparivano dal nulla in prati e pascoli perfettamente falciati, a Viù come a Gressoney. Queste semplici osservazioni sono utili per cambiare l'approccio verso altri luoghi comuni: "disastro annunciato", "scontiamo gli errori del passato", "hanno aperto le dighe" e quant'altro. Ovvero, di fronte a un fenomeno assolutamente naturale come un evento alluvionale, l'uomo non è la causa, ma semmai colui che ne subisce gli effetti, in modo più o meno consapevole, e qui sta il margine di responsabilità troppe volte portato all'estremo. Solo di questo è giusto lamentarsi e solo per questo è giusto attivarsi per mitigare le conseguenze: edifici troppo vicini agli alvei fluviali o costruiti in zone storicamente soggette a dissesto, qualche ponte dalla luce troppo stretta, e poco più. Ma è inutile illudersi di impedire ad ogni costo che le alluvioni si verifichino, meglio imparare a convivere con esse in modo ragionevole, recuperando una utile conoscenza del territorio senza le pretesa di volerlo piegare al nostro volere. Fa scuola in proposito lo sfoggio d'ignoranza sulla geografia dei luoghi declamata da giornali e televisioni, dalla Dora "Baltica" alla infondata fusione dei ghiacciai anche laddove non ne esistono. La lettura delle cronache del passato è quanto mai istruttiva: da almeno quattrocento anni, periodo nel quale gli archivi sono generosi di dati, le valli alpine sono continuamente in preda alla furia delle acque. Il Clavarino, per citare un esempio, scrive nel 1867 nella sua "Corografia" delle Valli di Lanzo che "Fin dai tempi più remoti queste valli andarono soggette a devastazioni per cagione delle piogge. In una inondazione, vero diluvio d'acque, sopravvenuto il 7 agosto 1469, furono distrutti tredici ponti, dieci fucine, tutte le strade pubbliche, allagate le case e le chiese. Quell'immenso danno indusse Amedeo IX, allora Duca di Savoia, con rescritto del 30 settembre, a liberare per dieci anni le Valli di Lanzo da ogni imposizione di sussidio, ed a concedere a Lanzo una nuova fiera di otto giorni alla Natività di Maria di ciascun anno. II 13 e 14 maggio 1549, una pioggia sterminata cagiono una generale inondazione, che distrusse quanti prati si trovavano lungo le basse valli. Nel giorno di S. Matteo dell'anno 1640 in Forno-Groscavallo le rovine ed inondazioni distrussero talmente i beni, che convenne rinnovare il registro di allibramento pel pagamento dei carichi ducali, ogni terra essendo stata trasformata e sconvolta. In settembre 1666 Pertusio in Valle d'Ala, che prima formava un comune separato dai vicini, ed era unito alla Parrocchia di Ceres, fu rovinato da una piena di Stura. Verso il 1700 due frazioni in Valle Grande, denominate Cianseia e Teppe, dipendenti dal Comune di Groscavallo, l'una popolata da quaranta famiglie, l'altra da quindici, furono sepolte sotto le rovine di montagne che un diluvio d'acque fece crollare". Il capitolo "Inondazioni e rovine" prosegue con altri disastri, e significativa è la sua chiosa: "L'operosità degli abitanti fece si che dopo cinque o sei anni scomparisse ogni traccia di queste devastazioni; trasportando le terre, e fatti nuovi canali, bellissimi prati adornano nuovamente le sue sponde, sino a tanto che per una nuova piena le acque riprendano il primo letto, apportando nuovi danni e nuove miserie". Oggi utilizziamo ruspe e cemento armato laddove un tempo c'erano solo gerle e picconi, ma l'ostinazione a riprendere possesso dei territori danneggiati è sempre la stessa. Solo in questo contesto va letto il ruolo dell'uomo nei confronti dei fenomeni atmosferici estremi di origine naturale. Ben diverso sarebbe se la frequenza e l'intensità delle precipitazioni alluvionali cambiasse per cause antropiche a scala globale. Tale è il timore a seguito del continuo incremento dei gas serra in atmosfera, ritenuti responsabili dell'aumento di temperatura di circa 0,8 C nel corso dell'ultimo secolo. In questo caso, la teoria fisica è coerente con un'accelerazione dei processi di evaporazione e di condensazione che potrebbero portare a precipitazioni di intensità crescente. Dopo gli ancor troppo recenti eventi alluvionali del settembre 1993 e del novembre 1994, quanta parte dell'ultima alluvione debba essere attribuita all'uomo e quanta alla natura è quasi impossibile stabilirlo, ma forse qualche millimetro di pioggia porta anche la firma dell'umanità. La sequenza di tempeste autunnali che ha flagellato l'Europa in questa fine millennio (prima di Josefine, Claire, poi Oratia e Rebekka) induce a riflettere, grottesco anticipo e monito alla Sesta Conferenza delle Parti per l'approvazione del Protocollo di Kyoto volto a ridurre le emissioni di gas serra. Anche se la climatologia non è ancora in grado di dimostrare con assoluta precisione se questi sintomi siano già ascrivibili alla malattia dell'atmosfera terrestre, già paghi a sufficienza delle alluvioni naturali non val la pena rischiare di aumentarne l'assiduità.

Luca Mercalli (Torino, 24 febbraio 1966), meteorologo e climatologo, ha studiato Scienze agrarie a Torino, con indirizzo agrometeorologia, conseguendo un master in Geografia alpina e scienze della montagna presso il Laboratorio Edytem dell'Université Savoie Mont Blanc di Chambéry (Francia). Si è occupato principalmente di ricerca sulla storia del clima e dei ghiacciai delle Alpi occidentali. Dopo un periodo di servizio presso l'Ufficio Agrometeorologico della Regione Piemonte, ha assunto la presidenza della Società Meteorologica Italiana. È docente di climatologia e glaciologia in diverse università. Ha fondato e dirige la rivista Nimbus e collabora con la Repubblica, La Stampa e Il Fatto quotidiano. Noto soprattutto per la partecipazione al programma di Raitre Che tempo che fa, ha condotto Scala Mercalli, in cui si è occupato di sostenibilità ambientale. Tra i suoi libri: Climi, acque e ghiacciai tra Gran Paradiso e Canavese (2005), Filosofia delle nuvole (2008), Prepariamoci (2011), Il mio orto tra cielo e terra (2016), Non c'è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali (2018), Il clima che cambia. Perché il riscaldamento globale è un problema vero, e come fare per fermarlo (2019) e Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale (2020).

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