Stampa questa pagina

Un Paese a termine

In occasione dei 40 anni di Piemonte Parchi ripubblichiamo alcuni tra gli articoli più significativi comparsi sulle pagine - prima cartacee poi "elettroniche" - della nostra rivista dal 1983 a oggi. Questa settimana è la volta di "Un paese a termine" di Antonio Cederna, pubblicato sul numero 4 del 1984.

  • Antonio Cederna
  • Febbraio 2023
  • Mercoledì, 8 Febbraio 2023
Foto A. Bacchella Foto A. Bacchella

Se c'è una risorsa limitata e insostituibile per eccellenza, questa è il territorio, e ogni sua perdita è irreparabile. Confusamente ne siamo coscienti quando, girando per l'Italia, ci meravigliamo di trovare una pineta ancora non lottizzata, un promontorio ancora intatto, una campagna ancora verde. un tratto di costa ancora allo stato naturale. Sembra che l'Italia si regga sull'avverbio «ancora»: infatti se qualcuno ci mostrasse quel che nel chiuso degli uffici tecnici viene previsto da piani regolatori e programmi di fabbricazione, ci renderemmo conto che quel che «ancora» è risparmiato è spesso destinato a essere prima o poi lottizzato, asfaltato, privatizzato. Viviamo dunque in una topografia provvisoria e temporanea: e qualcuno ha cominciato a calcolare quanto tempo resta prima che il Bel Paese sia tutto consumato. Confrontando i dati forniti dai censimenti, Pietro G. Cannata della Lega per l'Ambiente ha rilevato che nell'ultimo ventennio circa tre milioni di ettari di terreni agricoli e produttivi (pari a un decimo dell'estensione dell'Italia) sono stati eliminati da edilizia, urbanizzazioni, strade, discariche, cave, eccetera, al ritmo dello 0,5-0,7 per cento l'anno. Con la prospettiva che, andando avanti cosi le cose, tutto il territorio italiano dalle Alpi alla Sicilia venga consumato, finito in poco più di un secolo. Siamo dunque un paese a termine. Queste le previsioni (le «proiezioni» vien voglia di dire), grazie alla nostra nota arretratezza culturale, politica e amministrativa in fatto di territorio e di ambiente naturale. Ne è prova, tra l'altro, la clamorosa assenza di alcune leggi fondamentali: la legge sul regime dei suoli che consenta alle amministrazioni di acquisire terreni a prezzo equo e battere cosi la rendita fondiaria; e la legge-quadro sui parchi e le riserve naturali, per la creazione di una rete di aree protette a difesa di natura, paesaggio e ambiente, perché in avvenire si possa ancora dire "questa è l'Italia".

Quattro anni fa i naturalisti riuniti a Camerino lanciarono la «sfida del dieci per cento»: l'impegno cioè per stato, regioni, comuni, comunità montane, associazioni eccetera di arrivare a proteggere entro il duemila almeno il 10 per cento del territorio nazionale. Quale bilancio può essere fatto oggi? Se lo stato si mostra inerte e non riesce a varare la legge quadro, a istituire nuovi parchi nazionali né a garantire agli esistenti un sostanziale sostegno finanziario, vediamo in breve quel che hanno fatto le regioni, che da tanti anni dispongono di potestà, funzioni e competenza in materia. Un primo esame l'ha fatto Fabio Cassola, Vicepresidente del WWF, stabilendo un'istruttiva graduatoria. Partendo dal basso abbiamo le regioni che si sono completamente disinteressate della protezione del loro patrimonio naturale; e sono la Sardegna, che non ha un solo metro quadralo tutelato; la Basilicata che ha fatto marcia indietro per il parco del Pollino; la Calabria, la Campania e il Molise che non hanno fatto nulla. Tra le più arretrate va anche compresa la Valle d'Aosta. il cui unico scopo sembra quello di smantellare l'unità del parco del Gran Paradiso.

Seguono le regioni che hanno avviato qualche iniziativa modesta. Sono le Marche (tutela limitata solo all'aspetto floristico, niente parco dei Sibillini né del Cònero), l'Umbria, l'Emilia-Romagna (solo due riserve istituite dì quindici previste; ancora di là a venire, dopo lunghi studi e progetti, il parco del Delta del Po nel Ferrarese). Il terzo gruppo è formato da quelle regioni che hanno leggi-quadro, ma non sono riuscite ad andare al di là delle buone intenzioni. Sono la Liguria, che non ha realizzato nessuno dei parchi previsti dal suo ambizioso programma (le associazioni protezionistiche parlano di «furto dei parchi»); la Puglia (che ha perso oltretutto l'occasione per istituire il parco del Gargano); l'Abruzzo, che va spostando sempre più in alto la quota dove vige il divieto di costruzione di strade ed edifici; il Friuli-Venezia Giulia, che non ha realizzato nessuna area protetta (mentre il piano urbanistico regionale sottometteva a protezione circa il 30 per cento del territorio); il Veneto, che solo adesso sembra intenzionato a istituire i primi parchi (Monte Baldo, Cansiglio, Laguna di Caorle), disinteressandosi di Delta Padano e Dolomiti bellunesi.

Infine, il gruppo di regioni che hanno mostrato maggior senso di responsabilità. Sono la Sicilia con la legge-quadro de] maggio '81, che indica una serie di riserve e stabilisce norme di salvaguardia per l'Etna (minacciato dal più indecente abusivismo edilizio, per difendere il quale fu messo in alto il demenziale bombardamento della colata lavica); il Lazio, che ha istituito alcuni parchi (ma solo sulla carta); il Trentino-Allo Adige, dove la competenza è delle provincie, Trento e Bolzano: i grandi parchi istituiti dalla prima sono esposti a aggressioni e minacce di ogni genere; in provincia di Bolzano, all'istituzione di cinque parchi naturali (su otto previsti) fa riscontro il sistematico boicottaggio nei confronti del parco nazionale dello Stelvio. La Toscana che, prima della Legge-quadro dell'82, ha istituito due parchi, quello di S. Rossore-Migliarino che stenta a prendere corpo, e quello della Maremma che invece ha cominciato a funzionare bene. Infine, la Lombardia, che è stata la prima a darsi una legge-quadro (rinnovata dieci anni dopo) e a istituire un parco (quello del Ticino, pur con tutti i suoi problemi) e altri ne ha in corso e in progetto. Quanto al Piemonte, viene definito «la regione che più di ogni altra ha cercato di operare con serietà e concludenza: legge-quadro, piano regionale, servizio parchi, istituzione di sedici di parchi e dieci riserve previa accurata indagine del territorio eccetera, pur con tutte le ovvie difficoltà di tutela e gestione. Dunque, qualcosa si va facendo ma lunga è ancora la strada, e molti sono i pregiudizi e i luoghi comuni che devono essere superati. C'è la vecchia diatriba sulle competenze tra stato e regioni, assurda, perché ognuno deve fare la sua parte: allo stato il compito di far funzionare i parchi nazionali e di crearne di nuovi, alle regioni il diritto-dovere di realizzare in proprio parchi e riserve (fino a coprire il 7 per cento del territorio nazionale). Secondo i luoghi comuni più diffusi la difesa della natura sarebbe "un lusso", i vincoli di parco sarebbero una "remora" allo sviluppo, "prima l'uomo e poi il camoscio", eccetera. Un minimo di riflessione ci convince che sono argomenti senza senso cari soprattutto a speculatori e demagoghi del cemento e dell'asfalto, e che la verità è esattamente opposta. I lussi che ci permettiamo sono le migliaia di miliardi di danni che ogni anno ci costa il dissesto idrogeologico, frutto di malgoverno, incuria e imprevidenza: lungi dall'essere una remora, i parchi e le altre aree protette risultano alla fine un autentico servizio pubblico, un incentivo all'economia locale e nazionale (negli Stati Uniti, dove sanno fare i conti, risulta che la tutela dell'ambiente naturale rende dieci volte di più di quello che costa).

E' ormai accertato che la ricreazione all'aria aperta, il turismo escursionistico e di soggiorno reca benefici economici duraturi, diretti e indotti, alle popolazioni locali in termini di reddito e di occupazione, a differenza del turismo di rapina e di seconda casa, che degrada e impoverisce. La presenza degli animali selvatici significa che l'ambiente gode buona salute, e quindi a chiunque è consentita quell'esperienza corroborante per lo spirito e per il corpo che è l'osservazione della natura nei suoi aspetti inviolati. E' ora di smetterla con le sciocchezze del tipo «non imbalsamiamo, non mummifichiamo» la natura, e simili: perché la natura è un laboratorio formicolante di vita, e la vita la si garantisce con la tutela, la morte la si provoca con l'abbandono, l'inquinamento, la degradazione, il cemento e l'asfalto». E la vita dell'uomo, la sua salute e la sicurezza delle sue opere dipendono dalla vita della natura, delle farfaile, dei lombrichi, degli aironi, dei camosci.

Perché la gente non cada nelle trappole approntate da coloro che traggono le loro fortune dal saccheggio del territorio, occorre intensificare l'azione per informare, spiegare, convincere. La responsabilità è di tutti: della stampa, che troppo spesso si limita a deplorare fatti compiuti e disastri, degli uomini di scienza che troppo spesso si disinteressano del problema, dei politici che quasi sempre pensano ad altro. Alle forze della sinistra, spesso in ritardo, il compito di fare autocritica e recuperare il tempo perduto.

 

L'autore

Antonio Cederna (27/10/1921 Milano - 27/8/1996 Sondrio) è stato un giornalista, ambientalista, politico e intellettuale italiano. Tra i fondatori di "Italia Nostra", ha condotto varie battaglie di cui va ricordata quella per la tutela dell'Appia Antica, autentico fil rouge di tutta la sua esistenza. Suo figlio Giuseppe è attore e, a sua volta, scrittore.

 

Potrebbe interessarti anche...

Negli ultimi quarant'anni anche il birdwatching è cambiato, a partire dagli strumenti di osserva ...
A colloquio con il ricercatore geochimico piemontese Mauro Passarella, in forze all'Università d ...
Come sono considerati gli animali dall'ordinamento giuridico? Sono titolari di diritti, come ...
Dall'ultimo Rapporto Censis risulta che l'84 % degli italiani è impaurito dal clima "impazz ...