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Il Rifugio, ovvero il suono della montagna

Si intitola Il Rifugio ed è una produzione Radio Rai sul mondo della montagna fra teatro, musica e sviluppo sostenibile. Le puntate dedicate al Piemonte sono quattro e noi abbiamo intervistato l'autore, Ernesto Goio. 

  • Pasquale De Vita
  • Giugno 2022
  • Martedì, 7 Giugno 2022
Nella foto, Ernesto Goio autore della trasmissione 'Il Rifugio' Nella foto, Ernesto Goio autore della trasmissione 'Il Rifugio'

Diviso fra teatro e radio, il trentino Ernesto Goio è autore e conduttore del programma Il Rifugio - il suono della montagna. In onda da gennaio 2020 su Rai Radio live, in oltre 50 puntate la trasmissione racconta il mondo che ruota attorno ai rifugi di montagna "fra sentieri sconnessi e iperconnessi", attraverso le parole di chi vive le terre alte, senza stereotipi e con lo sguardo rivolto al futuro. Sono quattro le puntate finora dedicate da Goio al Piemonte, con il racconto dei rifugi Willy Jervis in Val Pellice, Piero Garelli nelle Alpi del Marguareis, Emilio Questa nelle Alpi Marittime e Mongioie nelle Alpi Liguri.

I rifugi sono come dei fari di montagna, punto di riferimento, guida e anche luogo di primo soccorso. Sono luoghi che danno la possibilità di osservare il mondo da un punto di vista inconsueto e inedito.

I racconti dei rifugi, disponibili anche in podcast su Rai Play Sound, sono monografie di custodi dei rifugi montani: in ogni puntata ne viene descritto uno. Il programma fornisce un racconto della montagna nel tempo d'oggi, di una umanità sospesa tra sovraesposizione, immersione nell'iperconnessione ma al contempo con il desiderio di trovare un riparo, una connessione più autentica con l'ambiente. I rifugi sono i luoghi del convivio per eccellenza, dove trovare meno community e più comunità. Le storie della montagna di ieri, e di oggi, che guarda al domani. Fatta di luoghi, ma soprattutto di persone. Donne e uomini che si impegnano a costruire un futuro sostenibile.

Abbiamo sentito Ernesto Goio per capire dalle sue parole come nasce Il Rifugio.

Ernesto, nella tua vita e nel tuo mestiere la passione per le storie ti ha portato in montagna: come nasce una trasmissione dedicata ai rifugi?

A un certo punto del mio percorso professionale sono approdato a Rai Radio Live digitale. Facendo una chiacchierata con il direttore Fabrizio Casinelli, l'ipotesi di parlare dei rifugi montani è stata accolta con piacere perché è una rete vocata al racconto del territorio, e a questo racconto mancavano le terre alte narrate da chi le vive quotidianamente, ovvero i custodi.

Mi hanno avvantaggiato le mie origini trentine e la conoscenza della montagna, che ho voluto raccontare in una prospettiva contemporanea, uscendo dallo stereotipo che la vede come un luogo dove il tempo si è fermato. La montagna di oggi guarda al futuro, all'imprenditoria giovanile e alla tecnologia. E i rifugi sono laboratori di sviluppo sostenibile.

Sei un frequentatore assiduo della montagna?

Di base ho la passione per il trekking: nella mia post-adolescenza ho attraversato un periodo refrattario alle gite in quota. Ma avendo fatto lo scout, l'avevo frequentata tanto durante l'adolescenza. Intorno ai 45 anni, l'età della consapevolezza e della maturità, mi sono poi riavvicinato alle terre alte: mi hanno aiutato in tanti momenti, sono come una scuola di vita, che serve molto.

Nella trasmissione si alternano rifugisti e altri frequentatori della montagna: ti rivolgi a loro per conoscere il "perché" si va in quota.
Quali risposte hai ricevuto?

Nelle narrazioni spesso si punta sul "dove" ma mi interessava puntare sul "perché", e ciò deriva da un approccio drammaturgico. La parte iniziale della trasmissione è incentrata su una coralità di voci, mentre viene presentato il rifugista che, idealmente, attende il visitatore. Le motivazioni emerse sono le più disparate. Una costante che accomuna le risposte è il desiderio di distacco e di cesura, cercare l'altro che non si trova in città in alta quota, qualcosa di totalmente differente. Disconnettersi è come staccare per cercare "altro".

Molti escursionisti, pur animati da una volontà di fuga dalla città, appena si trovano nell'ambiente incontaminato montano sono spinti da un irrefrenabile impulso a condividere la loro esperienza sui social. Non è un po' una contraddizione?

Anche questo è senz'altro un aspetto da considerare. Da un lato ritengo i rifugi collocati in un luogo che è il migliore osservatorio possibile sulla società di oggi. Molti vi arrivano inizialmente con il desiderio di condivisione ma poi si ricostruisce una socialità autentica nell'esperienza conviviale del rifugio. I rifugi stanno infatti vivendo una seconda primavera e fanno riscoprire il senso di una condivisione autentica. Il primo impulso, lungo il sentiero, è condividere sui social le foto del paesaggio che si apre davanti. Poi, però, passa in secondo piano, sostituito dal faccia a faccia con il compagno di gita o con l'escursionista che, incrociandoti sul cammino, ti rivolge un saluto. Il senso del rifugio è questo, il convivio, l'allegra brigata, la tavolata e lo stare insieme. In un'epoca in cui la società è tutta un eccesso, si va in cerca dell'essenziale. Dall'immersione nell'iper-socialità, mano a mano che si sale fra i sentieri, ci si spoglia di tutto e si va verso un sentire più autentico.

Ci descrivi una puntata tipo? Come costruisci la trama narrativa della trasmissione? E quale è il ruolo della musica?

La puntata inizia con una coralità di voci per esplicitare il focus del programma, e portare idealmente il radioascoltatore sul posto. Poi c'è l'incontro e la presentazione del rifugio, anticipato da un monologo. Immagino la presenza di un'accompagnatrice o un accompagnatore. Affronto temi vari percorrendo idealmente il sentiero di montagna. A questo punto viene la presentazione del rifugista. La prima parte è strutturata in modo da collocare geograficamente dove ci si trova e a descrivere il tipo di percorso. Poi, via via, la chiacchierata si dipana. Una chiacchierata telefonica in cui mi sento idealmente al telefono col rifugista e lungo il percorso mi imbatto in diverse figure. Come le scelgo? Chiedo a chi gestisce il rifugio di indicarmi delle personalità emblematiche: l'alpinista o l'avventore abituale o la guida alpina e naturalistica, il guardiaparco. La musica è un elemento narrativo, non la uso come decorazione: deve plasmarsi e creare un tutt'uno con il livello informativo ed emotivo. La musica ha valore di sottolineatura emotiva e suggestione narrativa. Il finale è l'approdo ideale: non arrivo mai al rifugio ma sempre sulla soglia, starà poi all'ascoltatore arrivarci idealmente. La puntata si conclude col "rifugio ideale" che diventa anche luogo della mente. È la metafora del percorso di montagna e della vita, dove si parte con la fatica e col sudore e si arriva leggeri alla meta e con una mente più inclusiva.

Hai dedicato più puntate ai rifugi piemontesi: Jervis, Questa, Garelli, Mongioie. Cosa ti ha colpito nel racconto del Piemonte?

Fierezza e passione sono le parole che associo ai percorsi piemontesi. Mi interessa anche come si racconta, i toni, le sfumature e le pause di impatto. In Piemonte ho trovato una bella determinazione del racconto, molto orgoglio ma anche una forte identità con il territorio da parte dei custodi dei rifugi. Al Garelli ho vissuto un rapporto simbiotico con il parco. L'inserimento dei suoni della natura, dei versi degli animali, sta sullo stesso piano delle voci umane. Al Questa, sopra il vallone del Valasco, nel Cuneese, Flavio Poggio, che concludeva lì la sua ultima stagione, raccontava dell'odore del legno del rifugio che ha dato il titolo all'episodio. Al Jervis, Roby Boulard diceva della Conca del Pra: "questa conca ha un'anima". Al Mongioie e al Garelli il tratto distintivo è la continuità della storia. Al Mongioie, Silvano Odasso, che lavorava con la madre al rifugio in cucina, continua la tradizione culinaria tramandata dalla stessa madre, ora che non c'è più. Al Garelli c'è un passaggio di consegna fra padre e figlio suggellato dal "tocca a te" che da il titolo all'episodio. In tutti i casi emerge forte il senso di identità e di legame col territorio.

Nelle puntate emergono anche storie imprenditoriali e idee per rilanciare l'economia in montagna?

È uno dei macro-temi, che mi ha portato a individuare tre tipologie fondamentali di custodi. I custodi di famiglia che seguono la linea della tradizione, poi la generazione del "mollo tutto" che reagiva dicendo "basta sono stufo, me ne vado e apro un rifugio". E ora c'è la generazione che non agisce più per reazione ma come scelta imprenditoriale. Giovani che hanno intuito il potenziale del mondo rifugio. Il racconto della modernità passa attraverso questi laboratori dell'oggi che guardano al domani. Ho trovato tantissimi giovani under 30 che lasciano il lavoro o iniziano a lavorare con i rifugi. C'è un'azienda di Bolzano, una startup di giovani che sta indirizzandosi al rifornimento delle strutture in quota attraverso i droni.

Nelle tue trasmissioni immancabilmente spunta la domanda sul timbro del rifugio, cosa rappresenta secondo te?

Adesso è anche molto ambito: tanti rifugi si consorziano e facendo un giro ad anello si possono ottenere i timbri di quelli che si raggiungono. È molto materico: l' idea di prendere un pezzo di legno e imprimerlo su un passaporto o su di un block notes personale è qualcosa di concreto che non è la foto da postare. Ciò che accomuna i rifugi al teatro è il "qui ed ora", il momento della conquista, che si può certificare raccogliendo un piccolo trofeo personale.

Altri temi sono l'attenzione alle buone pratiche e i suggerimenti per gli escursionisti, oltre all'immancabile cambiamento climatico...

Ho individuato due temi fondamentali: il cambiamento climatico, il cui problema sentito molto fortemente in montagna è quello dell'acqua, perché anche in mezzo a un ghiacciaio bisogna comunque convogliarla e potarla in struttura e per farlo c'è bisogno di strumenti e tecnologie avanzate. Altro tema sono i comportamenti virtuosi. Sessanta rifugi del sistema Dolomiti Unesco si sono consorziati per fare una sorta di educazione al mondo rifugio. Il post-covid ha portato molti fruitori non consueti nei rifugi, che non sono alberghi in alta quota, e rispetto ai quali non si possono avere pretese, anche con la gestione dei rifiuti. Uno dei grossi temi è infatti cosa portare giù dalla montagna e come farlo.

Come è cambiata la fruizione della montagna negli ultimi anni?

Già da molti anni i rifugi non sono più un punto di partenza. Nascevano infatti come base degli alpinisti per partire verso la vetta. Ora sono più spesso una meta e le esigenze di chi li frequenta sono aumentate. La vera sfida è trovare un equilibrio, in modo da soddisfare le richieste di chi arriva dalla città senza snaturarsi, perché il rifugio non è la città in alta quota. Bisogna staccare senza essere passatisti e senza aver paura di osare. Al Garelli il progetto di ristrutturazione fu salutato con perplessità, ma alla fine i finestroni spettacolari hanno la funzione di aumentare il riscaldamento all'interno. Ben venga l'innovazione se è funzionale. È un momento molto vivo in cui conciliare tradizione e innovazione.

Sei arrivato alla quarta stagione del Rifugio. Quali sviluppi prevedi?

Proseguire sull'onda di questa sempre più appassionata indagine umana. È un racconto di persone che vivono la montagna. Mi piacerebbe coinvolgere anche i content creators, youtubers e persone che raccontano la montagna attraverso i social. Ci sono moltissimi canali youtube e instagram sul tema e ho intervistato diversi nomadi digitali e alcuni giovani che si definiscono "montanari digitali". Ora che lo smart-working è stato sdoganato, i rifugi anche in questo caso si sono fatti interpreti di questa avanguardia, creando delle postazioni di lavoro ad hoc. Poi vorrei indagare anche i nuovi linguaggi e uscire dallo stereotipo. Approfondire anche l'aspetto delle risorse elettriche, su come rendere viva la macchina rifugio che si autogestisce, studiando gli aspetti tecnologici con attenzione alle nuove possibilità. Molti rifugi sono anche un punto di primo soccorso. È un aspetto fra i principali. I mezzi di elisoccorso sono diventati eliambulanze a tutti gli effetti. Ogni attività comporta dei rischi, bisogna uscire dal luogo comune della "montagna assassina". In realtà sono i comportamenti sbagliati, quelli sì, da stigmatizzare.

 

Chi è Ernesto Goio

Nato a Trento, fin da bambino girava col microfono per casa, segno di una passione radicata e innata. Dopo la gavetta nelle radio private trentine, nei primi anni 2000 si trasferisce a Roma con un buon bagaglio di esperienza fra radio e teatro, cercando di unire questi due linguaggi. Si è formato a Bologna frequentando prima il liceo classico e poi la facoltà di Lettere. Fra i suoi programmi per Rai Radio 3 è da segnalare Ad alta voce - letture dalla raccolta "Principianti" di Raymond Carver. Per Rai Radio 2: Mai sognato?, Il cammello di Radio 2, Vuoti di memoria, Balconi d'Italia! Besame Mucho, Aria condizionata, Dirty Boogie - il grande romanzo del rock, Numero Verde, 610 con Lillo e Greg, Tra il dire e il mare. Quest'ultimo programma, con i tratti della fiction, raccontava le vicende del guardiano in un immaginario faro nel Mediterraneo. Erano interviste sul mondo della radio e monologhi di satira di costume, sullo sfondo del racconto di una vicenda d'amore. Dai fari ai rifugi, il passo è stato breve.

 

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