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Parchi a stelle e strisce

Giornalista, scrittore, corrispondente dagli Stati Uniti per il quotidiano La Stampa, commentatore di politica estera e di "cose americane" per le tv italiane: eccolo qui Maurizio Molinari. Da diversi anni i suoi articoli e le sue analisi ci aiutano a capire le vicende internazionali. Molinari ha accettato di partecipare alla nostra discussione sul rapporto tra parchi e informazione. Un contributo, va da sé, che prende le mosse dalla realtà americana

  • Mauro Pianta
  • marzo 2010
  • Martedì, 30 Marzo 2010

In che maniera si discute dei parchi negli Stati Uniti, qual è l'approccio che prevale?
«Negli Stati Uniti si parla di parchi molto e spesso. A New York, dove vivo e lavoro dal 2001, ci sono le serate private per raccogliere fondi per realizzare progetti e iniziative ad hoc, operano associazioni di volontari che si impegnano in attività spesso ingegnose e il comune guidato da Michael Bloomberg moltiplica gli investimenti per piantare alberi. Ma soprattutto ciò che più conta è che ci sono milioni di cittadini che considerano i parchi come un tassello della loro identità, della loro stessa vita: non si finisce mai di andare al parco e generalmente l'approccio non è passivo perché la tendenza è interagire, creare eventi, occasioni, opportunità. Penso ad esempio ai "playdates", gli incontri tra bambini di tutte le età nei "playground", gli spazi dedicati a loro. E quando scompare una persona cara gli si dedica una panchina, con tanto di targhetta alla memoria. Le testimonianze di tale approccio sono infinite. Ad esempio, quando la scorsa estate una tempesta di fulmini ha investito Central Park e un'ampia area ha subito visibili devastazioni c'è stata una mobilitazione collettiva per rimediare ai danni».
Che cos'è che distingue la gestione dei parchi a New York?
«Il fatto che i parchi sono gestiti da enti ad hoc, con relativi consigli di amministrazione, bilanci, dipendenti e regolamenti. È una formula che consente al Comune di delegare ed a chi amministra i parchi di avere una notevole indipendenza d'azione. Anche nella raccolta fondi. E il risultato è che sono numerosi gli imprenditori che investono nel verde».
Quali sono a tuo avviso le principali differenze fra Italia e Stati Uniti nell'approccio ai parchi?
«A mio avviso sono di due tipi. La prima ha a che vedere con il fatto che negli Stati Uniti sono gestiti da enti privati e non pubblici. Fino al caso-limite del Gramercy Park a Manhattan dove i condomini hanno le chiavi del cancello per accedere al parco. La gestione affidata ai privati dà maggiori garanzie perché se vi sono delle carenze individuare le responsabilità è più facile, rapido. La seconda differenza ha a che vedere con l'educazione, intendo dire quanto viene insegnato ai bambini nelle scuole, pubbliche e private, riguardo al rapporto con la natura. La cultura dell'"outdoor" è profondamente radicata in una nazione creatasi grazie a pionieri, esploratori e coloni. Gli americani amano immergersi nella natura. Nasce così la cultura dei grandi parchi nazionali, dal Gran Canyon a Yellowstone, come anche il fenomeno della vita nei sobborghi, lontano dai centri urbani. D'altra parte Central Park venne creato dalla città di New York: è un parco artificiale, non naturale. Alla metà dell'Ottocento, con la città che iniziava a espandersi verso il nord dell'isola di Manhattan, gli abitanti sentirono il bisogno di un parco. E lo crearono dal nulla. Insomma, lo hanno voluto. Hanno voluto il verde, con tanto di laghi, prati, strade e alberi, in mezzo agli edifici che stavano costruendo. Le strade vennero fatte apposta per consentire alle carrozze a cavalli di passarci comodamente. L'intenzione è stata, sin dall'inizio, di consentire alla città di vivere nel parco. Nulla da sorprendersi se, di generazione in generazione, l'amore per il parco - e per i parchi - è andato in crescendo».

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