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La città vista dall'acqua

Sul tratto torinese del Po ci sono cinque storiche società di canottaggio: una pattuglia di oltre 1000 praticanti per uno sport affascinante che consente di vivere la natura in modo diverso.

  • Cristina Insalaco
  • Aprile 2011
  • Mercoledì, 27 Aprile 2011

Vista da quaggiù Torino ha tutta un'altra anima. La vita scorre più leggera, l'aria ha un profumo tenue e delicato e i colori delle rive avvolgono il fiume in un'oasi di incantevole serenità. Non esistono il caos e la frenesia della città, non esistono il traffico, lo smog e le corse affannate contro le lancette dell'orologio. È un'altra Torino. Una Torino gentile e silenziosa, dove la pacata tranquillità è interrotta soltanto dal rumore del vento che scuote le foglie, dagli schizzi d'acqua dei canottieri, dai versi di papere, cigni e aironi che osservano le barche curiosi e poi zampettano più in là. I canottieri del Po che vivono il fiume guardano la città da spettatori privilegiati.
"Il canottaggio è uno sport meraviglioso. Forma il fisico, educa il carattere e insegna a vivere". Ne parla così Umberto Dentis, il presidente della "Reale Società Canottieri Cerea", con un sorriso splendente di rilassatezza e occhi ubriachi di benessere. "Quando sono sul Po scarico la mente e vivo il fiume in totale armonia con la natura. Sto bene e mi diverto. Per me è come una droga bellissima". Passione, entusiasmo, energia e determinazione: è questo il canottaggio. Una sintesi di fatica ed eleganza, un magnetismo perfetto tra l'anima del canottiere e il fascino suggestivo di un fiume ritornato pulito.
Per Federico Vitale, allenatore del Cerea dal 2001, remare sul Po è "sana fatica e seria collaborazione, qui si creano delle amicizie fortissime perché in barca si soffre e si gioisce insieme". "A volte i bambini nelle calde giornate d'estate mi chiedono anche di poter fare il bagno. È come essere in vacanza tutto l'anno".
Il Cerea, che prende il nome dal tradizionale saluto dialettale piemontese, è la più antica società di canottaggio d'Italia. Da 148 anni essere soci Cerea è un privilegio consentito solo agli uomini, ma il presidente Umberto Dentis garantisce che non è affatto uno sport d'élite: "Uno vede dal ponte i ragazzi remare e si immagina che sia una cosa per ricchi, invece è uno sport per tutti, non costa più di un abbonamento in palestra". Al Cerea ci sono più di 250 soci e una cinquantina di canottieri, tra bambini, agonisti e dilettanti. Dai bimbi delle elementari fino al nonno più anziano che di anni ne ha 86. E poi c'è Paolo Uberti, "il gondoliere di Torino". Nato a Venezia nel 1934, trasportava in barca alimentari da Venezia alle isole; trasferitosi a Torino con il ricordo della sua città nel cuore, inizia a dilettarsi nella "voga alla veneta": una barca di legno, che in passato veniva usata per caccia e pesca, e che si rema come una gondola veneziana. Voga da solo ogni giorno su e giù per il Po, perché per lui è come avere ancora negli occhi un pezzo dei poetici canali della sua Venezia. Paolo è soprannominato "Ombra", ed è curioso ascoltare che qui, negli anni ai canottieri incollano addosso dei soprannomi che non vanno più via. C'è "Spazzola" che tutti (tranne la moglie) chiamano così per via del taglio dei capelli, c'è "Ferrovia" che prima di entrare al Cerea lavorava alle Ferrovie dello Stato, "l'Avvocato" e "l'Avvocaticchio" (che è arrivato dopo), o ancora "Freno", perché si dice che quando sale lui la barca rallenta sempre un po'.
Di aneddoti stravaganti la società "Armida" ne ha raccolti talmente tanti da pubblicare un libro. Racconta così, ridendo, il presidente Gian Luigi Favero: "Nel 1920, ad esempio, l'Armida organizzò una festa per raccogliere fondi per l'orfanatrofio "Umberto I" di via Ormea: ma l'iniziativa non solo non riuscì a raccogliere nulla per gli orfani, ma mise sul lastrico la società. Era una festa sul tema dell'Africa, i soci si dipinsero il viso, affittarono una zebra e due giraffe, e consumarono 10mila bottiglie di champagne. Spesa inutile ed esagerata".
Tra le società, spiega ancora il presidente, non c'è ostilità, ma una sana competizione: "Senza un po' di concorrenza, che noia sarebbe?". "Prima della guerra noi eravamo considerati "i goliardi", quelli del Cerea erano "i nobili", mentre le società Caprera ed Esperia "i politici" e "i commercianti", ma adesso di questa distinzione non è rimasto più niente". E se gli chiedi cosa rappresenta per lui il canottaggio ti risponde "l'amore della mia vita". Walter Bottega, prima atleta e adesso allenatore dell'Armida, lo descrive "una scuola di vita, un passaggio di valori, uno sport che ti insegna a lottare, sudare, soffrire". Il motto dell'Armida è "li alleniamo per vincere, ma gli insegniamo a perdere".
È anche la società con la percentuale più alta di donne, circa il 30%, entrate a far parte della società nel 1982. Per Anna Masera, caporedattrice del sito LaStampa.it e socia Armida da tre anni e mezzo, il canottaggio è stato un amore a prima vista. Felice ed entusiasta, si descrive "quasi fanatica" di questo sport. "È stupendo quando nevica, mi sento immersa in un silenzio ovattato, in simbiosi con la natura. Un po' come la meditazione". Sul Po hanno iniziato la loro carriera ragazzi che hanno vinto titoli mondiali e nazionali, in coppia, da soli, in barche da sei e da otto. E da qualche anno sono iniziati corsi e soddisfazioni anche per i disabili. Come Silvia de Plaria, che con la società "Caprera" ha vinto il quinto titolo dei campionati del mondo. E Sara Kobal, una ragazzina di 14 anni non vedente che nella società "Armida" ha trovato il coraggio di mettersi in gioco. Sara abita a Bra, frequenta il liceo classico e da grande vorrebbe fare la linguista. Con le gote rosse e un timido sorriso, ha sempre una voglia matta di salire il pomeriggio in barca con le sue amiche. "Mi piace perché sento la squadra, ho sempre insieme a me delle ragazze su cui poter contare. E poi ci raccontiamo di tutto. Mi rilassa, mi sblocca, la fatica mi ricarica". Il canottaggio, racconta, le è servito ad aprire i suoi orizzonti, a trovare sicurezza e determinazione per affrontare gli ostacoli della scuola, della vita. E con gli altri sensi riesce a mettere ancora più a fuoco i dettagli del mondo: gli odori più o meno intensi del fiume, i rumori degli uccelli o dell'immergersi del remo nell'acqua, "tramite l'eco della voce riconosco sempre il ponte esatto sotto cui stiamo passando". "L'importante - dice Cristina Ansaldi, allenatrice dei ragazzi con disabilità fisiche e psicologiche all'Armida - è non fargli sentire il problema come una condanna, mostrargli che c'è una soluzione a tutto, che non esistono strade chiuse. È importante che acquistino consapevolezza dei propri limiti e cerchino di superarli". Vedere un disabile che arriva sulle rive del Po in carrozzina, e dopo qualche minuto se ne va via in barca è un'emozione straordinaria.
Del rapporto viscerale con la natura e rispettoso del fiume parla anche il presidente del "Caprera" Piero Celoria, e per l'allenatore dell'Esperia Roberto Romanini è uno sport "d'aria aperta e libertà". Due suoi allievi, Federico ed Eleonora, 13 e 14 anni, raccontano orgogliosi della loro scelta di non essere andati a giocare a calcio o danza come i compagni di classe, "poi, io sono anche dimagrita", scherza Eleonora. Ogni stagione dell'anno in riva al Po è come una novità. Il profumo dei fiori e dell'erba fresca della primavera, la luce fredda delle mattine invernali, quando l'acqua diventa uno specchio gelido che riflette le immagini bianche delle sponde, o ancora le esplosioni di colori all'arrivo dell'estate. La stessa atmosfera che Pavese descriveva in La bella estate, "scendendo a Torino sul filo della corrente, gli occhi lavati dal sole e dai tuffi, asciugavano distesi, e le rive, la collina, le ville, le chiazze d'alberi lontani, s'incidevano nell'aria".

Cristina Insalaco

Studentessa alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino. Collabora con alcune testate giornalistiche e riviste culturali di Torino e ha scritto il libro di poesie intitolato Un semplice sguardo

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