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Una luce che sa di mare

Cesare Pavese e la sua terra. Un legame stretto, ambivalente, vivo. Fatto di amore, fatica, memoria e identità. "Perché – scrive Pavese – un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti"

  • Pierluigi Vaccaneo
  • aprile 2010
  • Giovedì, 15 Aprile 2010

«C'è un giardino chiaro, fra mura basse/ di erba secca e di luce, che cuoce adagio/ la sua terra. È una luce che sa di mare»1. È la luce dell'estate, del tempo in cui la feconda terra di Langa dona i suoi frutti più miracolosi, più intensi. È la luce che Cesare Pavese descrive in una sua poesia, Estate, ed è la luce che per prima ha scaldato e abbracciato la fantasia dello scrittore. Cesare Pavese è nato il 9 settembre 1908, e l'estate ha sempre avuto per lui i colori, i profumi, i silenzi, i misteri di Santo Stefano Belbo, di quei "quattro tetti" che gli hanno dato radici profonde cui è rimasto legato, stretto per tutta la vita, «ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione»2. Santo Stefano Belbo è stato per Pavese il luogo della villeggiatura estiva, il luogo mitico in cui le colline "vestite" dal faticoso e doloroso lavoro dei contadini, svelavano maliziose, all'animo curioso del giovane scrittore, i loro "verdi misteri", tanto che, nelle sue opere, la campagna è poi apparsa come un grande e ramificato albero, i cui rami, rappresentanti le varie sfumature semantiche che lo spazio agreste ha assunto tra gli scoscesi filari della letteratura, si rinnovavano continuamente con freschi e novelli germogli, nutriti dalla fertile immaginazione dello scrittore. Sfrondando oculatamente, possiamo notare che il dato rurale viene percepito da Pavese in modo contraddittorio: positivo e negativo. E allora la campagna è quella felice del ritorno del cugino de I mari del sud: «La vita va vissuta/lontano dal paese: si profitta e si gode/e poi, quando si torna, come me, a quarant'anni,/si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono»3. Ma anche quella ancestrale dell'incontro panico con il naturale: «Nel 1933 che cosa trovavi in questo libro [Il ramo d'oro di Frazer]? Che l'uva, il grano, la mietitura, il covone erano stati drammi e parlarne in parole era sfiorare sensi profondi in cui il sangue, gli animali, il passato eterno, l'inconscio si agitavano. La bestiola che fuggiva nel grano era lo spirito – fondevi l'ancestrale e l'infantile, i tuoi ricordi di misteri e tremori campagnoli prendevano un senso unico e senza fondo»4. Oppure quella ferina della scoperta giovanile ed ingenua del sesso: "Le mie terre di vigne, di prugnoli e di castagneti/dove sono cresciute le frutta che ho sempre mangiato,/le mie belle colline – hanno un frutto migliore/che fantastico sempre e non ho mai morso»5. O ancora quella dei miti, delle credenze contadine: «Eppure disse lui [Nuto], non sapeva cos'era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull'orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace. – Questa è nuova, – dissi. – allora credi anche nella luna? – La luna, – disse Nuto – bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna non attaccano»6. Un universo positivo dunque, caraterizzato da significati profondi, ancestrali, riecheggianti un passato mitico, prelogico, titanico. Ma la campagna risulta essere anche quella della dura vita contadina: «Compare un villano/con la zappa sul collo, e s'asciuga la bocca./Non si scosta nemmeno, ma scavalca quell'altro:/un suo campo quest'oggi ha bisogno di forza»7; quasi la terra fosse un nemico per il villano: «[...] la zappa i villani la picchiano in terra/come sopra un nemico e [...] si odiano a morte/come tanti nemici. Hanno pure una gioia/i villani:quel pezzo di terra divelto»8. Oltre quindi a rappresentare il luogo della dolce memoria, del giovanile vagabondaggio fatto di adolescenziali scoperte, la campagna rappresenta per Pavese anche il luogo in cui la vita è consumata dalla natura, in una continua lotta per la sopravvivenza in cui il contadino per avere ragione dell'elemento agreste deve regredire allo stato bestiale per instaurare un rapporto competitivo con la Terra, fatto di sacrifici, di sofferenza e di sudore: «La campagna è fatica/, la campagna è dolore»9.
Per Pavese dunque la campagna è positiva, quindi lo spazio agreste viene inteso come dolce ritorno fisico e mentale a un passato infantile ma anche mitico, primitivo, fatto di credenze, di riti, di feste e di pacifico connubio con il naturale; negativa e allora risulta dura, fatta di fatica e lavoro, di ignoranza nei confronti di un passato mitico che però dà i suoi segni di immortalità nella perenne sanguigna gestualità dei contadini. La campagna brucia come il fuoco di un falò, ma proprio come esso è viva, e risuona rigogliosa verso l'alto. Queste accezioni, positiva e negativa, danno l'idea di una campagna che si può semanticamente definire "piena" in quanto entrambi i casi fanno emergere la ricchezza di un universo che, differentemente da quello cittadino (contraddistinto nell'opera dello scrittore da altrettante caratteristiche positive e negative, che pesate e bilanciate risultano dimostrare una "assenza", una mancanza del mondo urbano, fatto non da una ritualità ancestrale e dunque comune all'umanità, bensì da una gestualità industriale, sempre identica, da catena di montaggio e quindi vuota, insignificante), avvolge e protegge, quasi fosse un grembo materno, che custodisce e contraddistingue profondamente l'uomo, dandogli radici, un passato, una storia, un'identità: «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti»10. Questa è dunque la campagna di Cesare Pavese, che lo scrittore ha vissuto e raccontato nei suoi romanzi, ed è la campagna che oggi scopre chi visita Santo Stefano Belbo. Un paese che, se da una parte risulta essere profondamente cambiato, sia da un punto di vista economico che urbano, rispetto ai "quattro tetti" pavesiani, dall'altra conserva appieno quelle caratteristiche antropologiche che, a chi lo scopre con pazienza, volontà e simpatia affettiva, donano un'esperienza piena, avvolgente, dal sapore giovane e proibito, irrazionale, bruciante, come un falò su di una collina. Venire a Santo Stefano Belbo e scoprire i "verdi misteri" raccontati da Pavese, significa dialogare con la parte più remota della propria interiorità, quella così lontana da essere comune a tutti gli esseri umani e così importante da essere fondamentale nella personale costruzione del sé. La Fondazione Cesare Pavese, l'Ente nazionale di riferimento per la divulgazione in Italia e all'estero della figura e dell'opera dello scrittore offre, a tutti coloro che aggiungono Santo Stefano Belbo tra le mete dei loro viaggi, l'opportunità di scoprire, attraverso l'immersione nei luoghi pavesiani e nel mondo letterario dello scrittore, caratterizzato dal mito, cui il poeta dedicò una parte fondamentale della propria ricerca, se stessi, secondo una "pienezza"che è culturale, storica, letteraria, antropologica, ma anche ambientale e pesaggistica. In quanto la Langa, sia quella della prima metà del Novecento che quella del ventunesimo secolo, è un tutto tondo naturale che completa l'uomo, da sempre e ancestralmente legato alla Terra. Venire in Langa significa salire sul fianco di una collina, arrivare sulla sua sommità, vedere in lontananza le montagne e sentire il profumo del mare. Un abbraccio della Natura che assieme alle parole di Cesare Pavese ci fa riscoprire la nostra infanzia, la nostra irrazionalità, quel sorriso nascosto e sincero, sepolto da stratificate sovrastrutture mentali e culturali, ma che non ha mai smesso si far sentire la sua voce, il suo sospiro. Venire in Langa significa vivere, come il fuoco di un falò che arde scoppiettando e guardando il cielo, la luna, sognando di poterla raggiungere per scoprirne il segreto.

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