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Una storia dalle radici profonde

Dal nostro archivio di carta, ripubblichiamo un articolo che racconta la storia del Museo regionale di Scienze naturali, cominciata nel lontano 1739 e che arriva, nel 2024, a compiere ben 285 anni. Un passato dal trascorso burrascoso ha contraddistinto questo gioiello museale torinese che oggi giunge, finalmente, a un presente di rinascita e di apertura al pubblico. 

  • Caterina Gromis di Trana
  • Venerdì, 1 Ottobre 1999
L'Arca del Museo Regionale di Scienze Naturali nel 2009 | Foto G. Goria CC BY-NC-ND 2.0 L'Arca del Museo Regionale di Scienze Naturali nel 2009 | Foto G. Goria CC BY-NC-ND 2.0

Siamo a Torino in via Giolitti 36. Dietro il portone del palazzo di Amedeo di Castellamonte, si sta facendo strada la speranza: il Museo regionale di Scienze naturali accoglierà di nuovo il pubblico, e ritorneranno i tempi d'oro, di quando Salgari viaggiava con la fantasia in un mondo soltanto sognato fra gli animali del museo per dare vita a quelli dei suoi libri. E forse ci sarà ancora qualcuno che scriverà poesie con lo spirito di Gozzano che per il volume Le farfalle si ispirò alle scatole ordinate di queste grandi collezioni oltre che al tremito vivo delle ali socchiuse sulla corolla dei fiori.
Da troppi anni sono nascoste, le "collezioni invisibili" e c'è il rischio che se ne perda la memoria: ma adesso quel portone aperto è irresistibile per il curioso appassionato di storia naturale. Dentro c'è l'atmosfera di penombra dei musei da cui la luce, intrusa sfacciata, è bandita. Un drappo nasconde l'ingresso alla prima crociera del vecchio ospedale, che si lascia immaginare, con più di 5000 metri quadrati a disposizione per il grandioso futuro delle esposizioni. Sulla destra, lo scalone d'onore sembra un invito a salire e in un curioso accostamento tra antiche statue austere e opere d'arte d'avanguardia si arriva al secondo piano. Uffici, tecnologie, e armadi, tantissimi, con gli insetti: poi, nascosta agli occhi del mondo, come quando faceva da triste sfondo ai dolori dei malati, la seconda crociera. In quello spazio, immenso e abbandonato del secondo piano, c'è tutta la storia del museo, tutto lo struggimento del perduto, tutta la tristezza del "fuori moda", ma anche tutta la forza del desiderio di riuscita. Gli studiosi ci sono e non si arrendono: passano imperturbabili in mezzo ad animali "spelacchiati e pieni di polvere", lanciando un'occhiata distratta a vecchissimi preparati di intestini illuminati dal sole che entra di taglio darla finestra.

Una miriade di professionalità

C'è l'ornitologo che trascorre il tempo in un braccio della croce, dove in lunghissime file sono allineati gli uccelli di Salvadori. E mentre li studia per riclassificarli in modo da rendere un po' più moderna la loro eterna immobilità, scopre il nido del codirosso spazzacamino, che ha saputo approfittare di un vetro rotto per sottolineare la vita che palpita in mezzo a un'esposizione di morte, e fa compagnia ai vivi. Poi c'è l'entomologo che combatte gli antreni, i minuscoli parassiti nemici delle collezioni che possono ridurre in polvere il contenuto prezioso di intere scatole trasudanti di storia. C'è lo zoologo che deve trovare il modo di non fare evaporare l'alcool dai vasi della collezione erpetologica, mai abbastanza ermetici, invidiando un po' i naturalisti di una volta che conservavano i loro reperti nel rhum quando, durante i lunghi viaggi intorno al mondo, esaurivano le scorte di conservanti più professionali. E ci sono tutti gli altri che si avvicendano tra gli scatoloni accatastati, nell'atmosfera da cantiere: il geologo che trova la sua poesia nelle pietre, il paleontologo che fa da ponte con Palazzo Carignano, dove trova sede una parte del suo lavoro, il botanico che tra tutta la vegetazione lussureggiante del pianeta ha scelto di studiare la vita estrema dei licheni. E altri ancora.
Fanno parte di un piccolo mondo che può essere attraversato per un istante dal curioso e rivisitato con sensibilità dal fotografo. Il museo come è oggi è quello di Dario Lanzardo, un luogo di lettura simbolica, un grande sacrario con un fascino quasi sinistro, come un'ammonizione a conservare una fetta della nostra storia. 

Anni di storia 

La storia del Museo è cominciata nel 1739. Allora Gian Battista Bianchi, professore di Anatomia nell'Ateneo torinese fornì uno schema per la formazione di un Museo di Storia naturale per la capitale del Regno Sardo al Re Carlo Emanuele III. A Torino, dove non è mai stato costituito un Museo di Storia naturale indipendente si realizzarono cinque "scompartimenti": Fisica, Matematica, Botanico, Anatomia e Oggetti vari e preziosi, che trovarono posto nel Palazzo dell'Università in via Po.
Il gusto del collezionare alimenta se stesso e infonde in chi ce l'ha il desiderio irresistibile di continuare: il Re acquistò alcune raccolte private e poi incaricò Vitalino Donati, direttore dell'Orto di Torino e professore di Botanica, di compiere un viaggio in Egitto allo ricerca di tesori. Da cosa nasce cosa e assieme ai materiali delle scienze naturali, da quel viaggio nacque il primo nucleo del Museo Egizio, con l'arrivo dei suoi primi reperti. 
Intanto la Reale Società Torinese, poi Accademia delle Scienze di Torino istituì un gabinetto di Storia naturale radunando le collezioni private di alcuni soci; e così i Musei di Storia naturale divennero due, e dibattendosi in un insieme di raccolte disordinate e prive di criterio scientifico, furono presto avvelenati da disagi e malintesi, come succede tra rivali.
Ci vollero i francesi per calmare le acque: fu Napoleone nel 1805, a unire i due litiganti in un unico Museo che affidò in proprietà e gestione all'Università di Torino. La sede divenne il palazzo della 'Academie des Sciences, Littérature et Beaux-Arts' e a gestire le raccolte che cominciavano ad avere il valore del quando e del quanto, si susseguirono personaggi di grande valore scientifico. Franco Andrea Bonelli ornitologo ed entomologo, professore di Zoologia dal 1811, diede al Museo organizzazione e fama. Doveva essere uno di quei personaggi che la passione rende invasati, perché andò fino a Parigi a piedi impiegandoci solo 10 giorni, anche se era gracile nel fisico e di modesta statura, pur di conoscere Cuvier, gran maestro dell'Università francese, e poi Lamarck e gli altri grandi nomi della zoologia del tempo. La lunga passeggiata di Bonelli contribuì a rendere il Museo di Torino meno provinciale e a trasformarlo in un centro per la ricerca scientifica, la didattica universitaria e la divulgazione. Poi accadde che l'ala nuova dell'Accademia in cui il piccolo naturalista appassionato tanto aveva sperato per collocare la nuova collezione malacologica fu destinata all'anatomico Rolando per i suoi preparati, e Bonelli ne morì: un colpo apoplettico dopo una colossale arrabbiatura.

Gli successe Giuseppe Gené che diede il via all'epoca affascinante dei viaggi: mentre lui andava in Sardegna su invito del Re Carlo Alberto a studiare la fauna dell'isola, partiva da Genova la fregata "Regina", con l'intenzione di compiere un viaggio intorno al mondo. Quella volta andò male: la fregata fu fermata da una tempesta a Capo Horn e non potè proseguire. Gené morì all'improvviso a 47 anni, nel 1847. Il suo successore fu Filippo De Filippi, chiamato a Torino da Carlo Alberto che ne conosceva la fama. Lombardo, di origine piemontese, lasciò il suo posto di assistente al Museo di Milano e creò a Torino quasi dal nulla l'importante sezione di Anatomia comparata. Era un evoluzionista convinto, cosa che a quell'epoca non era proprio scontata: è celebre una conferenza che tenne nel 1864 presso il Teatro di chimica, intitolata ''L'uomo e le scimmie" che gli attirò in tutto il nuovo Regno d'Italia un astioso coro di critiche dei benpensanti.
E lui, avvolto dallo scandalo sull'origine dell'uomo, come Darwin andò per mare, a cercare la certezza del pensiero. Fu capo della spedizione della Regia Pirocorvetta Magenta che salpò nel 1865 e navigò per tre anni in oriente, allo scopo di aprire rapporti diplomatico-commerciali con la Cina e il Giappone. De Filippi, malatissimo, concluse il suo viaggio per mare e anche quello terreno ad Hong Kong, la Pirocorvetta tornò in Patria con tutti i materiali da lui raccolti e con le sue osservazioni, che furono affidate a Michele Lessona, rimasto a Torino come direttore supplente. Lessona, medico valoroso, narratore e articolista arguto, grandissimo divulgatore delle scienze naturali, rettore dell'Università, ebbe una fortunatissima schiera di assistenti che assieme a lui resero grande il Museo: l'entomoloo Ghiliani, l'ornitologo Salvadori, l'erpetologo Peracca, l'aracnologo e entomologo Borelli.

Il passaggio delle Collezioni alla Regione Piemonte

Sono loro quelli dei cartellini un po' ingialliti, con una scrittura accurata ed elegante a indicare i dati, che accompagnano tanta parte delle collezioni storiche che dobbiamo rivisitare e accudire. Nel 1878 il Museo di Zoologia, la sezione di Anatomia comparata, il Museo di Mineralogia e quello, nuovissimo di Geologia, furono riuniti a Palazzo Carignano. E per un po' l'unità fisica dal Museo di Storia naturale fu mantenuta, in una sede prestigiosa e con tre direttori, uno per ogni «scompartimento'. Sotto la guida di Lorenzo Camerano il Museo di Torino diventò forse il più importante di Italia e uno dei più apprezzati d'Europa. Tutti vissero felici e contenti fino al 1936, quando ruppe l'incanto un evento nefasto: il trasferimento "provvisorio" delle sezioni di Zoologia, Anatomia comparata e Mineralogia in alcuni locali dell'Ospedale San Giovanni, con i danni che ne accompagnano tutti i traslochi: esemplari di grossa mole rovinati e molto materiale archivistico perduto. Però lo spazio era maggiore e il museo venne aperto al pubblico con un allestimento più moderno per i tempi.

Poi la Grande Guerra, i bombardamenti il soffitto della galleria superiore sfondato, la maggior parte del materiale possibile spedita fuori Torino e il resto affidato alla "clemenza" degli Alleati. Seguirono le ristrettezze del dopoguerra nel 1950 il Museo era aperto ma poteva contare su uno spazio ridotto. Gli anni recenti: mentre un progresso sempre più veloce cambiava le mentalità, mentre si sviluppavano filoni di ricerca che si interrogavano sul reale interesse della vecchia idea di 'museo' nasceva il corso di Scienze biologiche dell'Università a rendere ancora più drammatica la carenza di spazio. Gli studenti del primo anno sostenevano l'esame di zoologia sistematica nel museo chiuso al pubblico: ci si sentiva dei privilegiati a essere ricevuti in mezzo a tutti quegli scatoloni ammucchiati. Si intravedevano le vecchie vetrine buie, si sapeva della preziosità degli esemplari di animali estinti, si chiamava per nome l'elefante Fritz e si affrontava la prova di carattere che sempre deve essere un esame dietro un tavolo illuminato da una unica lampadina appesa a un filo, avvolti dall'odore di museo, prodotto da quelle sostanze usate contro i funghi e le muffe che lasciano un segno indelebile di nostalgia nella memoria.
La speranza di vedere il contenuto degli scatoloni restituito all'onor del mondo era flebile; poi una convenzione nel 1980 ha affidato le collezioni dell'Università alla Regione Piemonte, e allora il nuovo trasloco, con la consapevolezza che il valore di tutto quel materiale sta soprattutto nella sua storia. I disagi tra studiosi dell'Università e studiosi della Regione sono stati simili a quelli che c'erano alla fine del '700, con due musei rivali, ma per unificare e rendere utile un lavoro che interessava a tutti si sono aperte due strade: una ha istituito un Comitato scientifico formato da docenti universitari, con il compito di sovrintendere e coordinare (il "patriarca" così vigila sulle sue creature). L'altra è stata la scelta di interrompere la catena di direttori scienziati e di mettere a capo di tutto un avvocato. Il quale proprio perché non è uno scienziato si occupa delle collezioni con il giusto distacco che lo preserverà dal colpo apoplettico di Bonelli.

Paolo Sibille fu un manager con un futuro fatto di due enormi crociere. Pensò al Museo di New York, il più importante del mondo, con spazi di 50.000 metri quadrati, diretto da almeno quattro anni da una donna manager di 50 anni: un avvocato. 
Lo scopo dell'allora direttore fu di aprire al pubblico il museo il più a lungo possibile, con un avvicendarsi di mostre e di iniziative a tappeto, per ricordare, a chi aveva dimenticato, che questo posto esisteva. Presto avrebbe portato i minerali nel salone degli affreschi, messo in mostra di nuovo il vecchio Fritz nel Museo dell'Università liberato dalle cianfrusaglie.
Poi, nello stordimento di un turbinio di mostre, temporanee o itineranti, tra lupi, colibrì, artisti "animalier" e mille altre diavolerie, avrebbe occhieggiato la prima crociera: voleva alzare quel drappo che ne nascondeva l'ingresso. La prima iniziativa della nuova amministrazione fu stata il libro fotografico di Lanzardo: sembrava una sfida a immergersi nell'abisso affascinante del degrado. La speranza era che qualunque via la storia avesse scelto per seguire il suo corso, queste fotografie fossero la molla per una rinascita vincente.

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