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archi e sapori d’Appennino

I Parchi dell'Appennino, che in altri campi hanno faticato e non poco, in materia di gusti e prodotti hanno avuto la strada spianata. Da uno dei più ampi aggregati europei di aree protette, viene l'esempio di una convivenza virtuosa tra turismo ambientale e turismo gastronomico

  • Stefano Ardito
  • ottobre 2010
  • Giovedì, 2 Settembre 2010

Un filo di qualche millimetro di spessore lega i monti dell'Appennino con le trattorie di Roma. È uno spaghetto (meglio un bucatino, però) alla "matriciana", condito con pomodoro, guanciale, pepe e pecorino. Un piatto che è un pilastro della gastronomia dell'Urbe. E che è molto richiesto, tutto l'anno, dai romani che vanno a cena fuori, come dai turisti italiani e stranieri.
Non sono in molti a saperlo, ma quel piatto racconta una storia. La "matriciana", o "amatriciana", è la pasta come si fa ad Amatrice, cittadina dell'Appennino ai piedi dei Monti della Laga, sul confine tra il Lazio, l'Abruzzo e le Marche. Per secoli, in autunno, i pastori si sono spostati con le loro pecore verso la campagna romana. Dai primi del Novecento lo stesso percorso è stato seguito da cuochi e osti amatriciani, che hanno aperto ristoranti e trattorie nella capitale. Con loro, ovviamente, è arrivata anche la "matriciana".
Oggi nelle trattorie di Amatrice si scopre che il vero piatto dei pastori non era la matriciana ma la griscia (o gricia), fatta con gli stessi ingredienti tranne il pomodoro, che per la gente di montagna è stato a lungo un lusso. Al rapporto tra la cittadina e i sapori si è inchinato anche il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, che ad Amatrice ha insediato il suo Polo agroalimentare.
Gli amanti della natura della Laga a volte storcono il naso. Ma i bucatini di Amatrice, insieme a formaggi, carni alla brace e salumi, continuano ad attirare su queste montagne molti visitatori dei sentieri, delle vette, delle cascate e dei boschi. Considerazioni analoghe si possono fare per gli altri massicci – i Sibillini, il Gran Sasso, il Velino e il Sirente, la Majella – più belli ed elevati dell'Appennino.
Divisi tra l'Umbria, le Marche, il Lazio e il Molise, ma con un robusto cuore in Abruzzo, i grandi massicci dell'Appennino (la quota massima è il Corno Grande del Gran Sasso, 2912 metri) hanno sempre avuto uno stretto legame con le città ai loro piedi. Roma, certo, dove vivono più abruzzesi che a Pescara. Ma anche Perugia, Ancona, Frosinone, Rieti. E naturalmente Napoli, alla quale l'Abruzzo apparteneva fino all'Unità d'Italia. Su queste montagne, il turismo di escursionisti e alpinisti è nato a fine Ottocento con le scorribande dei primi soci del CAI, quello della neve negli anni Trenta con la nascita delle funivie del Terminillo e di Campo Imperatore. Nonostante la presenza di abbazie, borghi medievali e castelli spesso di grande fascino, il turista in cerca di arte e monumenti è una specie rara anche oggi.
Gli amanti della natura conoscono queste montagne dal 1923, l'anno in cui la nascita del Parco Nazionale d'Abruzzo (oggi d'Abruzzo, Lazio e Molise) ha posto le basi per la tutela dell'orso marsicano e del camoscio. Settant'anni più tardi, con la legge-quadro del 1991, sono nati i parchi nazionali della Majella, dei Monti Sibillini e del Gran Sasso e Monti della Laga. Se si aggiungono i parchi regionali del Sirente-Velino in Abruzzo e dei Simbruini nel Lazio, si comprende che l'Appennino centrale è un "super-Parco" con pochi paragoni in Europa. Basta poco al visitatore, però, per capire che l'alto Appennino protetto è ben diverso da Yellowstone e dallo stesso Gran Paradiso. File di escursionisti s'incontrano solo su una manciata di sentieri, come quello del Vallone delle Cornacchie al Gran Sasso, del Lago di Pilato sui Sibillini o della Val Fondillo nel PNALM.
Tra l'inverno e la primavera, sciatori-alpinisti provenienti da tutta Europa si ritrovano sul Sirente, sul Monte Camicia o sul Vettore. In estate, lo stesso fanno gli alpinisti sulle torri del Corno Piccolo, o nella falesia di Roccamorice. Muove numeri più consistenti il turismo scolastico, che porta in primavera decine di migliaia di ragazzi sulle tracce del camoscio e del lupo. Per la maggioranza degli adulti, però, i monti dell'Appennino sono soprattutto il luogo dell'aria buona e del buon cibo.
La matriciana, di cui abbiamo raccontato all'inizio, è solo un tassello di questo rapporto. A Roma, dove i cuochi di Amatrice hanno portato la loro pasta, il salumiere è da sempre il "norcino", e il suo negozio è la "norcineria". Qui il rapporto è con Norcia, capoluogo del versante umbro dei Sibillini, culla dell'arte appenninica di produrre prosciutti, lonze, capocolli e pancette.
Nei cento metri o poco più che separano le mura medievali dalla basilica di San Benedetto, figlio illustre della cittadina, si passano in rassegna vetrine che propongono i salumi locali, e poi tartufi, caciotte e le celebri lenticchie di Castelluccio. Tre quarti d'ora d'auto più a nord, nell'altrettanto suggestiva Visso, compare il ciaùscolo, la salsiccia tenera da spalmare sul pane. Nelle valli dell'Abruzzo teramano, lo stesso prodotto prende il nome di ventricina.
I Parchi dell'Appennino, che in altri campi hanno faticato e non poco, in materia di gastronomia e prodotti hanno avuto la strada spianata. Il Gran Sasso-Laga, da anni, collabora con i produttori locali e Slow Food alla promozione del pecorino di Farindola, profumato e leggero, che nasce sul versante orientale del Gran Sasso. Quello della Majella fa lo stesso con i produttori di caciocavalli e mozzarelle dei ricchi pascoli intorno a Pescostanzo, un'altra splendida cittadina medievale.
Oltre i mille metri di quota, dove il clima diventa estremo, crescono varietà antiche di farro, orzo, solina e cicerchie (oggi in recupero, dopo essersi avvicinate all'estinzione) e le celebri lenticchie di Santo Stefano di Sessanio e Castelluccio.
Quest'ultima, che la gente del posto indica come "la lènta", colora a giugno il Pian Piccolo e il Pian Grande con i suoi inconfondibili fiori gialli. A Navelli, tra il Gran Sasso e il Sirente, altri fiori segnalano i campi dove si coltiva il prezioso zafferano, che parte dai monti dell'Abruzzo in direzione di Milano e dei suoi risotti. Nella valle del Sangro, cuore del Parco d'Abruzzo, Lazio e Molise, l'area protetta collabora con i produttori di miele, fornendo recinti che impediscono agli orsi di saccheggiare periodicamente le arnie.
Se i parchi promuovono, danno contributi o aiutano a ottenere finanziamenti europei, il grosso del merito spetta ai produttori locali, che sono riusciti a resistere negli anni difficili del dopoguerra – quelli in cui l'Appennino si è rapidamente spopolato – e riescono oggi a trovare spazio in un mercato sempre più esigente. A proiettarsi per primi sui mercati globali, negli anni novanta, sono stati i produttori di vino ai piedi delle grandi montagne, come gli Zaccagnini della valle del Pescara e i Cataldi Madonna di Ofena, alle pendici del Gran Sasso.
Qualche anno più tardi, lo stesso cammino è stato intrapreso dai produttori di ricotta, pecorino, canestrato e marcetto, latticini e formaggi basati su una sapienza antica. Qui le condizioni sono molto più difficili di quelle del Monferrato e del Chianti, ma dei professionisti innamorati del loro lavoro – gli Aromatario e i Petronio di Castel del Monte, Nunzio Marcelli di Anversa degli Abruzzi, altri produttori di Pescostanzo e di Scanno – sono riusciti a proiettare l'Appennino e i suoi sapori nel mondo.
Lo stesso, tra l'Umbria e le pendici dei grandi massicci abruzzesi, hanno fatto dei giovani chef, che sono riusciti a dare nuova linfa a una cucina tradizionale e spesso un po' ingessata. Tutti sanno che Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, ha visitato l'Abruzzo nel luglio 2009, in occasione del G8 de L'Aquila. È meno noto che nove mesi prima, per festeggiare la sua elezione alla Casa Bianca, aveva scelto La Spiaggia, un ristorante abruzzese di Chicago. Tra i piatti più apprezzati era stata proprio la ricotta affumicata. Made in Anversa degli Abruzzi, Italy.

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