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Arnica, la pianta dei traumi

Pianta comune nelle nostre valli, rappresentava il rimedio elettivo dei montanari per ogni sorta di dolore e trauma.

  • Loredana Matonti
  • Giugno 2011
  • Martedì, 7 Giugno 2011

Quando dentro di me, cominciò la battaglia tra la vita e la morte, sentii che le schiere della vita, con questo fiore sul loro vessillo, aprivano con la forza una breccia e preparavano una sconfitta all'esitante nemico mortale e minaccioso. Ringiovanito dalla guarigione, la elogio immensamente ma è la natura infaticabile che dà vita a questo fiore, porta la guarigione e incessantemente rigenera.
Goethe

Si narra che il noto poeta, rinvigorito dopo la cura a base di arnica, levando il suo potente sguardo, in cui era tornata a brillare la solita luce solare, rivolgendosi al suo medico di fiducia affermò: "Siete troppo insicuri dei vostri rimedi, mi seguite troppo. Quando si ha un malato del mio calibro, bisogna usare metodi un pò napoleonici". Detto ciò, bevve una tazza di decotto di arnica, riprendendosi miracolosamente dall'ennesimo attacco di angina pectoris che lo affliggeva da tempo. Rimedio portentoso, ma "napoleonico" certo, perché già era nota, al tempo, la sua pericolosità e tossicità per uso interno. In estate questo bellissimo fiore sembra schiudersi senza annunciarsi: improvvisamente, il fusto coronato dai fiori dorati si erge sopra la rosetta di foglie. L'arnica (Arnica montana L.) è una pianta erbacea perenne, endemica dell'Europa, dalla Penisola iberica alla Scandinavia e ai Carpazi; in Italia è segnalata sulle Alpi, dal Goriziano al Cuneese, e nell'Appennino piemontese, pavese e parmigiano. Il fiore, decisamente di bell'aspetto, è simile a una "arruffata" margherita, di un bel giallo-arancio luminoso, lo stesso che i bambini usano quando colorano il sole. A inizio estate, nei luoghi dove riesce a formare interi prati, sembra quasi di scorgere tanti piccoli astri ridenti, che illuminano il magro pascolo alpino e allietano la vista di chi vi si imbatte. La pianta sopravvive al rigido inverno di montagna grazie al suo forte rizoma, i fiori di 4-8 cm, spesso solitari, sono sostenuti da steli ghiandolosi, alti circa 20-60 cm, piuttosto robusti e ricoperti da una fine peluria, che spuntano da foglie basali ovate e opposte, riunite in rosetta. Come tutte le Asteracee o Composite, i capolini sono composti da due parti; un grosso "bottone" centrale con piccoli fiorellini tubulari gialli e, nella parte esterna, numerose ligule di colore giallo arancio. Tre dentini all'estremità delle stesse facilitano la distinzione della specie. L'odore è leggermente acre, il sapore amaro e un po' piccante. Chi desidera ammirarla, deve recarsi ad altitudini al di sopra dei 500 m, da cui l'epiteto specifico montana; i suoi fiori fanno infatti capolino in quota, fino ai 2200 m, da giugno ad agosto, su prati e pascoli poveri e brughiere a rododendro, generalmente evitando i terreni calcarei a favore di quelli acidi.

Storia e impieghi

Come spesso accade, l'etimologia è rivelatoria anche degli impieghi passati di questa apprezzata pianta delle nostre valli. L'origine del nome del genere Arnica è controversa: è probabile che esso derivi dall'alterazione del termine greco ptarmike, che significa starnutire, con allusione alle proprietà starnutatorie delle sue foglie. Altri autori sostengono che l'origine del nome sia da attribuirsi alla parola greca arnakis (pelle di agnello) alludendo alle fine peluria delle foglie. Rivelatorio uno dei suoi tanti nomi volgari, come tabacco dei Vosgi, tabacco di montagna o "fiür d'el tabac" in piemontese; i nostri nonni infatti, ne fumavano le foglie essiccate, anche per beneficiare delle proprietà antiasmatiche, anticatarrali e decongestionanti sulle vie respiratorie. Era altresì chiamata "china dei poveri", perché il fiore si prescriveva in infusione teiforme nelle febbri intermittenti, in alternativa alla corteccia di china, allora molto costosa. Molto curioso uno dei nomi popolari usati in Germania, "fiore del lupo", forse per il colore dei fiori, che faceva pensare agli occhi gialli dell'animale o più probabilmente per le credenze popolari tedesche, secondo le quali, in tarda estate, quando il vento passava frusciava tra le spighe, il "lupo del grano" vagava tra i campi. Figura mitologica, simboleggiava la forza del campo, lo spirito del cereale e portava l'energia necessaria alla maturazione. Se la spirito lasciava il campo, il grano si seccava; per evitarlo i contadini circondavano gli appezzamenti con l'arnica, la "pianta del lupo" appunto, che gli avrebbe impedito di andarsene anzitempo. Non appena l'ultima spiga veniva tagliata, il "lupo del grano" si rifugiava a dormire nell'ultimo covone rimasto, che veniva decorato e trasportato in giro per il paese con grande festa. In seguito, i contadini seminarono l'arnica intorno ai campi nella notte di San Giovanni per proteggere i cereali dal demone del grano. Anche la famosa mistica ed erborista tedesca, Santa Ildegarda di Bingen, la chiamò "wolfsgelegena", definendola anche un potente afrodisiaco. Forse perché, sempre secondo la tradizione mitteleuropea, l'arnica era dedicata alla dea Freya e, accanto all'iperico e alla felce, non poteva mancare nei rituali amorosi del solstizio d'estate. Si riteneva persino che avesse poteri magici in grado di influenzare il tempo atmosferico, per cui veniva bruciata durante i temporali. In tutta Europa, l'arnica era il rimedio apprezzatissimo per ematomi, contusioni, dolori articolari e geloni nonché come stimolante della sudorazione (diaforetico). Le veniva attribuita un'azione antinfiammatoria e di regolarizzazione della circolazione periferica, mentre la tintura trovava impiego come antireumatico ed antinevralgico. Fu solo nel XIX sec. che la pianta godette di particolare fama anche per le affezioni nervose e le commozioni cerebrali provocate da cadute o da colpi ricevuti alla testa; per questa ragione le farmacopee del tempo la definirono "Panacea lapsorum", ossia toccasana dei caduti. Anche in Piemonte l'uso esterno era molto diffuso tramite diverse preparazioni: l'infuso dei fiori freschi in impacchi e frizioni per le infiammazioni degli arti, per lenire il dolore proveniente da contusioni e per assorbire gli ematomi. Spesso si confezionava o un alcolito, facendo macerare i fiori nella grappa per circa 40 giorni, oppure un oleolito, in cui la macerazione avveniva nell'olio di oliva; entrambi venivano impiegati per uso esterno per problemi svariati, dalle foruncolosi alle contusioni, dolori e traumi articolari. In altre località nell'oleolito si scioglieva della cera d'api a caldo; l'unguento che ne risultava era impiegato persino per lenire la sintomatologia provocata dal fuoco di Sant'Antonio. In alcuni casi, l'alcolito veniva frizionato sulla schiena, non solo per i dolori intercostali, ma anche per le bronchiti e le polmoniti. In alcune località, oltre ai fiori, si raccoglievano anche le radici, macerate in alcol a 60° per dieci giorni. In particolare, prima che ci si rendesse conto della sua tossicità per uso interno, venne utilizzata dai fisiomedicalisti dell'inizio secolo come stimolante specifico del sistema nervoso centrale e per la sua azione moderatrice e sedativa dei riflessi spinali. L'uso interno fu poi del tutto abbandonato, in quanto poteva provocare fenomeni irritativi a livello gastrico e a volte persino paralisi dei centri nervosi. Attualmente, l'uso interno è adottato solo in omeopatia, dove le elevate diluizioni ne garantiscono la sicurezza; in tale sistema terapeutico è rimedio molto gettonato in caso di dolori e traumi fisici ma, in diluizioni più elevate ancora, anche per quelli psichici. Invalsa e confermata invece, l'efficacia per uso esterno che si deve all'azione sinergica dei vari componenti. In pratica, essa blocca l'infiammazione dovuta ai traumi con versamenti sierosi e incrementa il riassorbimento degli stessi. A titolo di curiosità, l'antica dottrina delle signature dava un'interpretazione "simbolica" della sua azione nei traumi: i fiori gialli simboleggiano la forza formativa dei raggi solari da essi catturati. Il carattere, espresso dalle qualità solari di questa pianta e dal meraviglioso ordine in cui sono raggruppati gli innumerevoli fiorellini, uniti a formare un fiore unico, aiuterebbe direttamente il tessuto danneggiato, che ha perso la propria forma, a ripararsi. Un'interpretazione poetica, su cui la mente può sognare quando, nei pascoli di montagna, lo sguardo scorge i suoi dorati fiori che brillano al sole.

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