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Una (normale) questione di vita o di morte

Non ci sono buoni o cattivi: gli animali producono sostanze tossiche per predare (e procurarsi il cibo) o per difendersi

  • Caterina Gromis di Trana
  • Gennaio febbraio 2011
  • Lunedì, 19 Maggio 2014

Affascinanti questi portatori di veleno: le loro azioni sembrano dettate da intenzioni malvagie, degne della strega di Biancaneve e della sua mela, e invece nel linguaggio un po' antiquato della zoologia di mezzo secolo fa ritrovano la giusta dimensione naturale. Il veleno, per gli animali che ne sono provvisti, non ha niente a che fare con i buoni e i cattivi, è una questione di normale utilità. Scriveva Alessandro Ghighi sull'enciclopedia UTET La vita degli animali, nel 1951: "A seconda dell'uso che un animale fa del proprio veleno, quello può essere considerato velenoso o velenifero. Nel primo caso il veleno può essere contenuto nei tessuti del corpo dell'animale e questo può riuscire quindi velenoso come i funghi, per chi lo divori. Altri animali, come i Miriapodi dell'ordine di Chilognati e i Batraci, posseggono distribuite in varie parti del corpo, ghiandole velenifere le quali segregano il veleno alla superficie di esso e costituiscono pertanto una difesa per l'animale, giacché il predatore che lo aggredisce ne risulta offeso e allontanato. In tal caso la secrezione velenosa è un mezzo di difesa come può esserlo una secrezione ripugnante per il suo odore". Nel mondo animale sono molto diffusi la produzione e l'accumulo di sostanze tossiche, e la differenza tra le parole velenoso e velenifero dà un senso a due alternative evolutive: una di attacco, adatta all'animale che inietta volontariamente il veleno per uccidere, l'altra di difesa, usata da chi lo produce per proteggersi. I veleni dei predatori di solito sono prodotti da ghiandole annesse alle fauci, come nei serpenti e nei ragni, oppure da aculei e pungiglioni, come negli scorpioni e in certe vespe. Chi usa sostanze tossiche per colpire, non disdegna di approfittarne per difendersi. Lo hanno imparato a loro spese i frequentatori dei nostri mari affollati di meduse: le loro ventose urticanti, costituite da piccoli arpioni sparati all'esterno, detti "cnidoblasti", nascono come armi di offesa per uccidere la preda, ma possono diventare potenti meccanismi di difesa ai danni dei bagnanti che inavvertitamente finiscono sulle loro rotte. Il veleno usato a scopo protettivo è accumulato prevalentemente nella pelle, in modo che il predatore al primo assaggio si riempia la bocca della sostanza tossica. È una strategia nella lotta per la vita che ha dato luogo a una serie di reazioni a catena, in un crescendo di astuzia. La più immediata si chiama "segnale aposematico" e avverte i predatori dell'inappetibilità della preda. Molte larve di lepidotteri producono sostanze moderatamente tossiche associate a colorazioni vistose, probabilmente per favorire la selezione di parentela. La farfalla depone uova aggregate, da cui originano fratelli o fratellastri: dunque, se il predatore uccide un bruco, l'associazione tra il veleno e la colorazione lo scoraggerà ad attaccare un altro bruco che è probabile fratello del bruco predato. Il sacrificio del singolo avrà così favorito la sopravvivenza di individui imparentati. Senza inoltrarsi in mondi tropicali di rane sgargianti e serpenti micidiali, è sufficiente guardarsi intorno nelle nostre campagne per trovare esempi di colorazioni di avvertimento tra api e vespe. Per mettere in guardia i malintenzionati che cosa c'è di meglio che essere il più possibile vistosi? Nel linguaggio degli animali si sa che giallo e nero a strisce vuol dire "oggetto repellente". Se non basta, a rincarare la dose ci si mette anche il ronzio, segnale acustico allarmante, rafforzativo. Il veleno dei calabroni può provocare anche la morte: nella sua composizione chimica entrano istamina, serotonina, acetilcolina e altre sostanze velenose, per lo più polipeptidi, che formano un cocktail la cui potenza è legata a molti fattori, dalla quantità di punture, alla zona del corpo colpita, alle condizioni fisiche, all'età (le persone soggette ad asma e ad altre allergie sono più a rischio, come i vecchi e i bambini). Rispetto a quello delle api il veleno delle vespe e dei calabroni differisce per il suo costituente, la kinina, un breve peptide che causa sensazioni dolorose ai tessuti in cui è introdotto. Ha una tossicità più elevata in estate, quando gli animali sono in piena attività.

Il culmine dell'astuzia si raggiunge nei mimi. I sirfidi per esempio, insetti inoffensivi, si difendono dai predatori con quello che si chiama "mimetismo batesiano", che prevede l'imitazione di un animale velenoso. Loro, innocui, hanno una livrea di ammonimento simile a quella delle vespe, paurosa e scoraggiante. E da veri bulli emettono anche un inquietante ronzio per essere più convincenti. C'è di che avere paura di animali dotati di pungiglione e strisce, mettendosi nei panni delle loro potenziali prede: il veleno di certe vespe solitarie ha la funzione di paralizzare gli insetti (grilli, cavallette, mosche e altre vespe), su cui la femmina deporrà le uova. La preda, immobilizzata ma non morta, offrirà alle larve nutrimento sempre fresco: bella condanna a volte rimanere in vita... E questa atroce abitudine delle vespe più primitive sembra non essere altro che un preadattamento, che si evolve negli imenotteri sociali con un pungiglione che diventa arma di gruppo a difesa della colonia. Se si aggiunge la produzione di un feromone di allarme che attira le operaie soldato sul luogo dell'attacco, è meglio pensarci due volte prima di profanare un alveare. Anche l'innato ribrezzo che proviamo nei confronti dei ragni ha una ragione: atavica prudenza. Niente da spartire con migali e vedove nere che vivono altrove, però anche in Italia esiste un ragnetto piccolo e nero, chiamato malmignatta, il cui morso in casi eccezionali può uccidere un uomo. Sull'addome della femmina, che è la più pericolosa, si riconoscono tredici piccole macchie rosse. Tra i vertebrati alcune specie di rane, rospi e salamandre producono tossine chimiche (batracotossine) a funzione anti predatoria, che nella maggioranza dei casi sono solo moderatamente velenose. Fanno eccezione certe raganelle dell'America centromeridionale, che sono gli animali in assoluto più velenosi per l'uomo: le neurotossine che producono, alcaloidi della famiglia dei curari, sono utilizzate dagli indigeni per intingere le loro frecce mortali. Ma restano i serpenti il simbolo del veleno, ed è dura a morire nelle campagne l'abitudine di far fuori tutto ciò che striscia. Eppure in Europa solo la vipera è degna di maledizioni bibliche, e anche lei nemmeno tanto, perché se morde l'uomo lo fa sempre per difesa e mai per attacco spontaneo. Il suo veleno è neurotossico ed emotossico, agisce cioè sui processi di coagulazione del sangue e sul sistema nervoso. Il primo a descrivere gli effetti del morso fu Avicenna, medico persiano del primo secolo dopo Cristo. Poi Francesco Redi, nel '600, si dedicò a esperimenti sul veleno delle vipere, provandolo sulla propria persona. Dimostrò che è innocuo per via orale mentre diventa pericoloso se iniettato nel corpo. Lo conferma un episodio di anni recenti, capitato al professor Giacobini, attuale direttore del Museo di Anatomia Umana dell'Università di Torino. Immune dal comune ribrezzo verso i serpenti, un giorno che si era trovato a tu per tu con una vipera, l'aveva trattata con eccessiva confidenza. La vipera gli aveva piantato un dente in una mano, da cui i sintomi, importanti, descritti con rigore scientifico senza emozione, neurologici, cardiaci, emolitici... Queste informazioni, date dal protagonista dopo anni dall'incidente, dimostrano che il morso della vipera non sempre è mortale, ma non lo si dimentica più. Per capire l'utilità del veleno per la vipera, ci vogliono due topi: uno sacrificato senza l'uso del veleno e l'altro morto in seguito al morso del serpente.
La carcassa del primo andrà in disfacimento molto più rapidamente di quella del secondo, perché le tossine iniziano una vera e propria digestione della preda prima ancora che l'animale l'abbia ingerita. Quindi il veleno è in un sol corpo arma, riparo e digestivo: l'equi­valente, pensando a noi, di un fucile, un tetto sulla testa e un buon grappino.

Caterina Gromis di Trana
Biologa, collabora con varie testate di divulgazione naturalistica

 

Ali velenose

Capita a tutti di graffiarsi un dito e di portarlo istintivamente alla bocca per lenire il dolore; ma quando lo ha fatto John Dumbacher, ricercatore dell'Università di Chicago durante una spedizione in Nuova Guinea, è stata una scoperta epocale. Era il 1989 e stava catturando uccelli del Paradiso, quando nella sua rete è caduta anche una specie endemica, il Pitohui dichrous, che, comprensibilmente indispettito per la cattura, lo ha beccato, provocandogli l'istintiva reazione di leccare la ferita. L'immediata sensazione di intorpidimento alla bocca che è derivata si è poi rivelata essere causata da una sostanza tossica accumulata nel piumaggio dell'animale. Questo alcaloide, chiamato homobatrachotossina, difende questa specie rendendola disgustosa e repellente per i predatori. Non è un fatto raro in natura quello di rendersi immangiabili per sfuggire alla predazione; capita ad alcune specie di anfibi tropicali e a molti insetti, mentre per gli uccelli non si conosceva nessun caso di velenosità. La tossina che difende il Pitohui dichrous sembra derivi dalla sua alimentazione, che comprende i coleotteri del genere Choresine, produttori di questo veleno; l'alcaloide si concentra nella pelle e nello sgargiante piumaggio, trasformandolo in una sorta di corazza disgustosa, che lo difende dai predatori che hanno già avuto, o si sono tramandati culturalmente, l'esperienza di "assaggiarlo". E come per gli altri animali tossici, l'evidente colorazione arancione è un eloquente segnale per i nemici: attenzione, sono cattivo! Un adattamento simile è stato anche riscontrato in altri passeriformi indonesiani, appartenenti al genere Ifrita, localmente chiamato, e a ragione, "uccello amaro". Chissà che in futuro non se ne scoprano altri, per caso oppure sulla base dell'esperienza del ricercatore americano. Per tutti gli inanellatori, quindi, un consiglio: assaggiare il piumaggio degli uccelli catturati, prima di rilasciarli. Non si sa mai.

Riccardo Ferrari - Naturalista

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