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Con Cristina al Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino

E' il Museo delle grandi esplorazioni quello di Scienze Naturali di Torino che ha riaperto al pubblico una parte di esposizione, dopo 10 lunghi anni di chiusura. Lo abbiamo visitato insieme con Cristina Falchero, naturalista e guida del Museo. 

  • Emanuela Celona
  • Gennaio 2023
Martedì, 16 Gennaio 2024
Cristina Falchero e alcune installazioni del MRSN di Torino  | Foto R. Valterza Cristina Falchero e alcune installazioni del MRSN di Torino | Foto R. Valterza

Parte dalle altissime e iconiche giraffe, la nostra visita guidata al Museo Regionale di Scienze naturali di Torino che venerdì scorso, 12 febbraio, in occasione della sua inaugurazione, ha visto un pubblico delle grandi occasioni.

Giraffe acquistate da Michele Lessona, zoologo dell'Ottocento e docente di storia naturale anche all'Università di Torino, che trascorse nella città gran parte delle sua vita e a cui il Museo Regionale di Scienze Naturali dedicherà presto un totem dotato di intelligenza artificiale, grazie alla quale sembrerà di poter dialogare con il famoso professore, ci racconta Cristina Falchero, naturalista e guida del Museo per la cooperativa Arnica, che ci accompagnerà per tutta la visita. In effetti è già così per quello con l'avatar di Sir Alfred Wallace, padre della biogeografia con cui ci si può intrattenere ponendogli domande di ogni sorta.

Le due postazioni dotate di Intelligenza artificiale sono soltanto due delle novità che caratterizzano la riapertura dei primi 2mila metri quadri (sugli 8mila complessivi) del Museo, interamente collocati al piano terreno, e suddivisi in: Museo storico di zoologia, Arca delle esplorazioni e Sala delle Meraviglie.

Il Museo di zoologia

Lo storico Museo di zoologia dell'Università di Torino accoglie il visitatore che varca la modernissima entrata del Museo regionale, da via Accademia Albertina 15, dove tutti gli esemplari sono esposti seguendo la distribuzione delle specie per aree biogeografiche, ovvero aree distinte tra loro in base alla presenza di flora ma soprattutto di fauna caratteristica.

Se vi capita, cercate la tigre: è uno degli esempi - tra i numerosi animali esposti – che bene documenta il difficile lavoro dei tassidermisti di un tempo che spesso ricostruivano gli animali partendo dalle pelli e sulla base di disegni di chi li aveva visti vivi, in natura. Ecco quindi che la tigre, grande predatore della foresta, fu preparata sulla base di un manichino di gatto, l'animale più simile conosciuto, motivo per cui in Museo ha un aspetto poco realistico ma un grande valore storico, ci spiega la nostra guida. 

Novità del Museo zoologico è l'esposizione osteologica – cioè degli scheletri di alcuni esemplari - che illustra i principali adattamenti evolutivi dell'apparato scheletrico al tipo di movimento che l'animale compie, e che a sua volta è il risultato di un adattamento all'ambiente. Novità perché presenta reperti che, in passato, furono esposti solo temporaneamente in occasione della mostra 'Scheletrinluce'. Un'esposizione che, nel 2004, ha costituito l'occasione per presentare al pubblico una selezione dei materiali più interessanti e suggestivi delle collezioni del Museo di Anatomia comparata dell'Università di Torino, tra cui, appunto, diversi reperti scheletrici anche di grandi dimensioni, come quelli di cetacei.

L'Arca delle esplorazioni

Dominante, nello spazio chiamato Arca delle esplorazioni, è lo scheletro di una Balenottera comune che si spiaggiò a Bordighera, nel lontano 1844, pare in seguito a una lesione spinale. Cristina ci racconta che del cadavere del cetaceo, la popolazione sfruttò la carcacassa per ricavarne olio destinato all'illuminazione, mentre lo scheletro fu montato nel 1852 da Giuseppe Cantù, abile tassidermista dell'epoca, su una singolare armatura che troneggia al centro dell'Arca. Questi locali, allestiti dall'architetto Andrea Bruno come la stiva di una nave dell'Ottocento, ospitano i reperti delle preziose Collezioni scientifiche che risalgono al 1700. Qui troviamo i reperti più interessanti e singolari del Museo che accompagnando il visitatore in un viaggio "attraverso le esperienze di grandi esploratori - piemontesi e non – che raccontano da dove provengono le collezioni dell'istituzione museale", ci spiega la nostra guida. Il nuovo allestimento vuole essere un viaggio immersivo grazie al quale scoprire il ruolo che ebbero le esplorazioni del passato nella storia naturale, cominciata con il viaggio del Beagle, il brigantino che, nel 1831, portò Charles Darwin, a soli 22 anni, in una spedizione scientifica tra America e Oceania, dalla quale scaturì la teoria della selezione naturale.

E che dire di Alexander Von Humboldt? Grande e avventuroso esploratore del Sudamerica già nel 1800, che nel raggiungere gli oltre 5000 metri di quota sulle Ande, intuì le basi di quella che oggi chiamiamo 'fitogeografia', ovvero la scienza che ricerca le cause determinanti dell'assetto della vegetazione sulla superficie terrestre.

Gli esploratori del passato, ma non solo

Sono molti i personaggi che incontriamo nell'Arca delle esplorazioni. Si tratta di spedizionieri in qualche modo legati al Museo: come Vitaliano Donati, direttore dell'orto botanico, chiamato da Giovan Battista Bianchi (fondatore del Museo nel 1739) per effettuare una spedizione in Egitto, da cui tornò con numerosi reperti e fogli di erbario ancora oggi conservati presso l'Orto botanico di Torino. Oppure di Carlo Giuseppe Genè, zoologo, che nel 1831 fu professore di Zoologia all'Università di Torino e condirettore del Regio museo di storia naturale e che grazie ai suoi viaggi in Sardegna, descrisse per primo, con l'aiuto dell'amico Lamarmora tre specie sconosciute fino ad allora: l'aquila del Bonelli, il falco della Regina e l'usignolo di fiume, di cui in museo si conservano i tipi.

Non da meno, Filippo De Filippi, successore di Genè dal 1848 nella direzione del Museo di Zoologia, ebbe il merito di individuare il parassita delle larve dei bachi da seta e la spedizione diplomatica italiana in Persia ebbe anche la finalità, oltre a quella di tessere buone relazioni commerciali, di arginare la preoccupante epidemia del prezioso lepidottero.

E non poteva mancare nella narrazione dell'Arca, il famoso viaggio della Regia Pirocorvetta della Magenta, dove Filippo De Filippi (studioso di invertebrati), Enrico Hillyer Giglioli (studioso di vertebrati) e Clemente Blasi (tassidermista) furono impegnati nella prima circumnavigazione attorno al Mondo. Salpata da Napoli l'8 novembre 1865, mentre il colera stava imperversando, con un equipaggio di 297 persone, la Magenta prese il mare il 2 febbraio 1866, verso all'Isola di Giava. Giunta a Saigon, De Filippi si ammalò di febbre, al punto da dover interrompere la navigazione: Giglioli si ritrovò così a dover gestire da solo raccolta, campionatura e studio di reperti zoologici, botanici, etnologici e antropologici. La nave proseguì il viaggio verso Giappone e Cina; quindi toccò l'Australia, attraversò il Pacifico, attraccò a Callao in Perù, proseguì lungo il Cile e la Patagonia, fino a passare lo stretto di Magellano, per ritornare a Montevideo, nel dicembre del 1867. Il 28 marzo 1868 fece ritorno a Napoli, nella totale indifferenza: eppure fu un'impresa epica! Oltre alle numerose osservazioni sulla fauna pelagica, la Magenta riportò importanti raccolte etnologiche, paleontologiche e mineralogiche con 5.986 spoglie di animali appartenenti a oltre 2.000 specie che andarono a costituire la collezione centrale dei vertebrati italiani del Museo Zoologico "La Specola" di Firenze. Un'impresa bene narrata nel Viaggio intorno al globo della Regia Pirocorvetta Magenta, opera scritta nel 1875 da Enrico Hillyer Giglioli.

Gli esemplari più singolari

All'interno del Museo ci sono degli esemplari che hanno solleticato maggiormente la nostra curiosità e di cui abbiamo chiesto notizie alla nostra guida. Curiosa, ad esempio, la presenza del Gliptodonte, un mammifero erbivoro vissuto nel Pleistocene, la cui corazza è esposta nell'Arca. Il suo ritrovamento avvenne nel 1838 da Nicola Descalzi, esploratore e cartografo, nella pampa del Rio Matanza, nei pressi di Buonos Aires. Fu in occasione della spedizione della Fregata La Regina che, dopo la visita del botanico Casaretto e il Principe Eugenio di Savoia presso l'abitazione di Descalzi dove l'esemplare era esposto, venne avanzata dai due la richiesta di destinarlo al Museo torinese. Descalzi accettò la proposta, denigrando la cospicua somma offerta dal Museo di Londra per lo stesso reperto.

L'orso polare, invece, arrivò in Museo grazie alla spedizione denominata 'Stella Polare', condotta da Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi verso il Polo nord fra il 1899 e il 1900. Scopo della spedizione era quello di portarsi nel punto più settentrionale del Globo raggiungibile via mare, per poi proseguire sul pack con le slitte trainate da cani. Purtroppo nella baia di Teplitz dell'Isola del Principe Rodolfo la nave rimase incagliata nel ghiaccio, subendo seri danni allo scafo. Il campo base fu quindi allestito sul pack dove gli esploratori avrebbero passato tutto l'inverno, per tentare l'avvicinamento al Polo soltanto in primavera. Le rigide temperature portarono a Luigi Amedeo di Savoia il congelamento e la conseguente amputazione di due falangi. Da questa spedizione derivò un'ampia collezione di cetacei, di cui il Museo conserva circa 50 reperti tra cui il cranio di beluga donato dal Duca degli Abruzzi a inizio Novecento e 'Verde', uno dei cani da slitta siberiano usato nella stessa spedizione.

Ma il Duca degli Abruzzi non fu attirato solo dall'Artico. Nel 1905 si interessò al massiccio del Ruwenzori, al confine tra Uganda e Congo. Documentata dal bravo fotografo Vittorio Sella, la straordinaria impresa alpinistica fu accompagnata da una dettagliata esplorazione dell'area africana dal punto di vista geologico, botanico e climatico, tanto da restituire numerosi campioni di rocce e vegetali.

Le donazioni più recenti

L'ultima parte dell'Arca delle esplorazioni racconta le ultime donazioni ricevute dal Museo regionale tra gli Anni '70 e '90, come l'erbario di Giacinto Abbà e la più recente collezione di Alfonso e Ada Sella, donata al Museo nel 2005. I coniugi biellesi, tra il 1954 e il 1984, raccolsero ben 2.539 campioni botanici che adagiarono su cartoncini colore avorio, didascalizzandoli con una calligrafia che contribuì a rendere ogni foglio una piccola opera d'arte.

Il rinoceronte di Roatto giunse invece in Museo nel 1991, quando il procedere di un aratro in un campo presso Villafranca d'Asti portò alla luce sue frammenti di ossa fossili. Ovvero quando i paleontologi del Museo e dell'Università di Torino effettuarono lo scavo e scoprirono uno scheletro incompleto di rinoceronte. Nelle sabbie astigiane erano presenti oltre un centinaio di reperti ossei: in base alla loro disposizione, fu possibile ipotizzare che il cadavere dell'animale fosse stato trasportato dalla corrente fluviale.
Sul finire della visita, giungiamo alla camera dedicata alle recenti esplorazioni in Madagascar dello zoologo del Museo, Franco Andreone, e a quella dedicata alla collezione di minerali donati da Eugenio Falco, appassionato di mineralogia: forse una delle installazioni più appariscenti per luci e luccicanze. Una volta giunti nella Sala delle meraviglie, l'effetto è quello di essere in una gioielleria. Qui i cristalli, con i colori e le forme della rodocrosite, dell'azzurrite, dell'eblaite e del quarzo abbagliano qualsiasi visitatore, sorpreso anche dai grandi modelli di mastodonte e rinoceronte poco lì accanto, a testimoniare la vita che abitava qualche milione di anni fa il Piemonte. Altrettanto spettacolare, nella medesima Sala, la collezione di coleotteri e lepidotteri che espongono gli esemplari più d'effetto delle collezioni del Museo, come il Titanus giganteus, il coleottero con la maggiore massa corporea oppure la cosiddetta farfalla gufo con i caratteristici occhi da rapace disegnati sulle ali quale tecnica di difesa.

Per uscire, ci tocca ripercorrere l'Arca a ritroso, attraversando per lo spazio dedicato alle conferenze – tutte gratuite fino al 2 febbraio, dietro prenotazione – sulle cui pareti è proiettato in loop un videomapping gigante dove pesci e balene fanno capolino, e salutiamo anche l'elefante Fritz (quello vero, tassidermizzato, e non la sua copia che abiterà per qualche tempo in piazza Castello) radiografato dei suoi organi interni sempre grazie a un gioco di proiezioni, e promosso a vera star in occasione della riapertura al pubblico dei primi spazi del Museo.

Anche lui fiducioso, come tutti noi, appassionati visitatori di elefantiaca memoria, che questo Museo possa tornare alle antiche – e complete – meraviglie espositive.