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La biodiversità agricola aiuta il clima e “batte” la pandemia

L'agricoltura industriale produce omologazione e contribuisce al cambiamento climatico, mentre la biodiversità agricola fa bene a noi e all'ambiente. 

  • Alessandro Paolini
  • Gennaio 2021
  • Venerdì, 5 Febbraio 2021
Il cappone di Morozzo - Foto p.g.c. Consorzio per la Tutela e la Valorizzazione del Cappone di Morozzo Il cappone di Morozzo - Foto p.g.c. Consorzio per la Tutela e la Valorizzazione del Cappone di Morozzo

Gli esperti ci dicono di cambiare il nostro modello alimentare, aumentando le varietà di specie coltivate e introducendo nella nostra dieta "cibi intelligenti". Come i prodotti bandiera di "Parchi da Gustare", tra cui c'è il cappone di Morozzo, protagonista di una bella storia di resilienza in tempo di pandemia.

Maggiore varietà per cibi migliori

Stefania Grando è una "plant breeder" con oltre 30 anni di esperienza nella ricerca agricola per lo sviluppo in Africa e Asia. Le sue competenze spaziano dal miglioramento genetico delle piante ai cambiamenti climatici e all'uso efficiente delle risorse genetiche. Ha lavorato ad Aleppo, in Siria come responsabile del programma di miglioramento dell'orzo ed è stata direttore del Programma Cereali, Qualità della Ricerca e Strategie presso il centro ICRISAT ad Hyderabad, in India. E' autrice di numerosi articoli su riviste internazionali e di video divulgativi come quello dal titolo "Per salvare il pianeta servono cibi intelligenti" che è visibile sul sito di TEDxVarese.

Secondo Grando i regimi alimentari seguiti dall'umanità negli ultimi cinquant'anni, oltre a non essere più soddisfacenti da un punto di vista nutrizionale, non sono neanche più sostenibili perché contribuiscono al cambiamento climatico e all'erosione della biodiversità. Gli studi scientifici dicono che la biodiversità nel piatto è importante per la nostra dieta ma anche per contrastare il riscaldamento globale. Dai modelli di previsione sappiamo infatti che in futuro farà sempre più caldo, pioverà sempre meno, cambieranno le malattie delle piante, si ridurranno gli insetti impollinatori e aumenteranno le specie infestanti: tutti fenomeni che potrebbero essere contrastati con un aumento della variabilità genetica delle coltivazioni. L'attuale modello agricolo e zootecnico va invece - paradossalmente - in senso opposto: la varietà di specie è stata ridotta drasticamente e si tende all'uniformità delle produzioni. Quali sono le soluzioni? Riportare la biodiversità nei campi, tornando a colture differenziate che consentano di produrre e consumare "cibi intelligenti". Per Grando questi cibi fanno bene alla salute di chi li mangia e, contemporaneamente, giovano al pianeta perché la loro coltivazione è ecosostenibile e - infine - aumentano la redditività del contadino che li produce.

Un esempio? Oggi il 70% delle calorie di origine vegetale assunte nel mondo proviene da tre sole colture: mais, frumento e riso. La globalizzazione ha portato ad una drastica riduzione delle varietà coltivate, tanto che oggi si producono e consumano le stesse specie in tutto il mondo. Si potrebbero invece utilizzare cereali come miglio e orzo, ad esempio, che sono più nutrienti e digeribili, hanno un minor fabbisogno idrico, sono più resistenti alle malattie e al cambiamento climatico, hanno meno bisogno di fertilizzanti e anticrittogamici e, infine, producono più reddito per l'agricoltore che spende meno in chimica e vende di più sul mercato mondiale, dove c'è sempre maggior richiesta di nuove qualità.

Applicando questo principio a tutte le coltivazioni si può pervenire a "popolazioni evolutive": coltivare nello stesso campo tante specie diverse di piante, in tutto il mondo, garantisce diversità nello spazio e nel tempo. Le piante si adattano da sole al cambiamento climatico, divenendo più produttive e resistenti alle malattie. Questo consente, parlando ancora di cereali, di recuperare antiche qualità di sementi e produrre pane e pasta più buoni e più apprezzati dal consumatore finale.

Parchi da Gustare, le eccellenze gastronomiche piemontesi

Parchi da Gustare, giunto quest'anno alla sua quinta edizione (di cui vi daremo conto prossimamente sulle pagine di Piemonte Parchi) è il progetto attraverso cui la Regione Piemonte intende valorizzare i sapori e i saperi delle aree protette piemontesi. Per ogni area è stata coniata una "carta d'identità gastronomica" che identifica i cosiddetti "prodotti bandiera" del territorio. Si tratta di autentici tesori di biodiversità gastronomica custoditi dai parchi piemontesi e salvaguardati, attraverso il loro lavoro, da produttori e ristoratori. Eccone alcuni esempi: la patata piatlina (il nome deriva dalla forma tonda leggermente appiattita), autoctona delle vallate occitane del Piemonte, che veniva coltivata prima dell'arrivo degli ibridi ed è stata recentemente riscoperta per la sua consistenza tenace e profumata. O, ancora, la segale della Valle Gesso, capace di resistere al clima severo di alta quota, con cui fino agli anni '50 si faceva un po' di tutto: dal pane con la granella ai tetti delle case, alle lettiere degli animali. Oggi, dopo un lungo abbandono, è stata riscoperta ed è l'ingrediente principe di una filiera che, oltre al pane, vanta birra artigianale, biscotti, farina e semplice paglia, ma di qualità.

Tutto quanto è stato detto per i prodotti agricoli vale anche per la zootecnia e l'allevamento e per le specie animali che vivono allo stato selvatico. Ecco allora i prodotti derivati dal latte, come il Plaisentif, il formaggio delle viole delle Alpi Cozie; il pesce, come le trote fario e iridee delle Valli Pesio e Tanaro; il cinghiale "controllato" del parco della Mandria e il cappone di Morozzo.

Ed è proprio quest'ultimo a raccontarci come i prodotti della tradizione, oltre che buoni e sani, sono resilienti e capaci di adattarsi a nuove condizioni, come quelle che abbiamo vissuto nel 2020 a causa della pandemia.

"Capùn a cà... la pula cò"

Il cappone di Morozzo è un galletto castrato di "razza nostrana", dalla cresta e i bargigli piccoli e il piumaggio variopinto. Come previsto dalla tradizione e garantito dal disciplinare del Consorzio per la sua tutela e valorizzazione, deve essere allevato a terra, libero nell'aia o in recinti con una superficie di almeno 5 m² per capo ed alimentato con prodotti esclusivamente vegetali. E' considerato tra i migliori al mondo per la tenerezza ed il gusto della carne e nel 1999 è diventato il primo Presidio di Slow Food. Al suo cappone il piccolo paese di Morozzo, nella pianura cuneese, dedica ogni dicembre una fiera cresciuta negli anni, che valorizza e mantiene vive le tradizioni (come quella locale di mangiare il cappone a Natale) ed un ricco patrimonio culturale legato soprattutto all'attività delle donne, tradizionalmente dedite al suo allevamento (le "capunere"). Le origini dell'antica fiera risalgono al passaggio in Italia di Napoleone, quando i mezzadri, già per consuetudine espressa nei contratti agricoli, portavano in dono per il Natale una o più coppie di capponi ai proprietari dei terreni da loro coltivati. Nelle aie di Morozzo vengono allevati non solo capponi, ma anche le "pule" (le galline giovani che non hanno ancora deposto).

Nel 2020, a causa del Covid-19, la tradizionale fiera si è svolta soltanto in modo virtuale, ma il Comune di Morozzo e il Consorzio hanno avuto un'idea geniale: proporre il "Capùn a cà... la pula cò", ovvero la preparazione e la consegna a domicilio di prodotti e piatti a base di carne di cappone e di "pula" (gallina). Il menù per tutto il periodo delle feste di fine anno ha potuto essere ordinato telefonicamente o per mail ed essere ritirato presso i punti vendita aderenti di Morozzo oppure ricevuto direttamente a domicilio distribuito gratuitamente dalla Pro Loco. L'apposita scatola, per due persone, conteneva: insalatina di "pula", salsiccia di bue e porri, ravioli al plin di cappone, brodo di cappone, rolata di cappone ripiena, scamorza bianca di un caseificio locale e "baci del capùn".

Ma non è tutto. Su iniziativa del Comune di Morozzo e dell'ATL del Cuneese, i capponi sono stati spediti in Thailandia, ad alcuni ristoranti di Bangkok, e cucinati da chef italiani e stranieri: i video relativi a queste rivisitazioni gastronomiche con abbinamenti inediti sono stati pubblicati sui social. L'iniziativa verrà replicata anche nei prossimi anni in altri Paesi del mondo, per internazionalizzare sempre più questa eccellenza del Piemonte: un esempio di promozione efficace di un prodotto di qualità in un momento difficile, per ripartire più forti quando torneremo alla normalità.

Una curiosità finale: a Pompei gli archeologi hanno recentemente riportato alla luce un antico Termopolio ancora intatto, una sorta di "banco alimentari" che serviva pietanze antesignane del contemporaneo "street food". Ebbene, tra le immagini dipinte sul fronte del bancone e conservatesi in condizioni eccellenti, si riconoscono chiaramente due oche appese a testa in giù e un gallo che, come forma e colorazione, ricorda il cappone di Morozzo. Che le pregiate carni del volatile morozzese fossero già conosciute ed apprezzate duemila anni fa?

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