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Una tomba egizia in una storia di essenze tutta piemontese

Fu l'egittologo piemontese, Ernesto Schiaparelli, a ritrovare nel 1906, la tomba di Kha e tremilacinquecento anni più tardi, agli inizi del Novecento, un altro piemontese, Oreste Mattirolo, fu chiamato a decifrare i reperti vegetali della tomba. 

  • Laura Succi
  • Gennaio 2020
  • Lunedì, 13 Gennaio 2020
 Foto Pixabay Foto Pixabay

TT8 (Theban Tomb 8) è la sigla che identifica una delle tombe dei nobili e dei funzionari della cosiddetta "Necropoli Tebana", sulla sponda occidentale del Nilo, di fronte alla città di Luxor in Egitto: la tomba di Kha. Fu l'egittologo piemontese Ernesto Schiaparelli a ritrovarla inviolata nel 1906. 
Kha era un tecnico di alto rango addetto alla costruzione della necropoli di Tebe, vissuto circa 3500 anni fa, nel Nuovo Regno. Merit morì prima di suo marito ed è accanto a lui ancora oggi al Museo Egizio di Torino, in una sala gioiello che conserva anche tutti gli oggetti del loro corredo funerario.

A Kha, il faraone Amenhotep II in persona regalò un cubito recante incisioni dedicatorie (unità di misura pari a 52,5 cm) in legno di acacia, ricoperto con una lamina d'oro; alla sua cintura portava un altro cubito, ripiegabile, appeso in un astuccio di pelle rossa tramite una piccola cinghia. Entrambi strumenti di misura per il suo lavoro di architetto.
Dal canto suo Merit marciava nelle cerimonie a testa alta con una parrucca di capelli corvini autentici impiastricciati di sostanze grasse, vista l'usanza di sistemare in cima al capo coni gelatinosi che col passare delle ore spandevano profumi. Il Kyphi, il prediletto a quei tempi, era una mescolanza di 60 diverse essenze come ginepro, cedro, menta, pistacchio, cannella. Profumi, ma anche unguenti e medicinali: in una cassetta si osservano i tuberi commestibili di Cyperus esculentus, i babbagigi, assieme a mandorle dolci (Amigdalus communis), due vegetali largamente ricordati nelle Flore faraoniche; servivano a preparare emulsioni perché ricchi di sostanze oleose. Anche il ginepro fenicio (Juniperus phoenicea), sistemato in un cestino per le offerte, e probabilmente importato dagli antichi egizi dai paesi mediterranei, era usato sia come medicinale sia come profumo. Di queste fragranze odorava Merit.

Tremilacinquecento anni dopo, Oreste Mattirolo

Tremilacinquecento anni più tardi, agli inizi del Novecento, Oreste Mattirolo, all'epoca del ritrovamento, titolare della cattedra di botanica e direttore dell'Orto Botanico di Torino, e lo fu per una trentina d'anni, fu chiamato a decifrare i reperti vegetali della tomba; gli atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino sui "Vegetali scoperti nella Tomba dell'Architetto Kha e di sua moglie Merit nella Necropoli di Tebe, dalla Missione Archeologica italiana diretta dal Senatore E. Schiaparelli" portano la dedica di proprio pugno di Mattirolo: "All'Ill. Sig. Senatore Schiaparelli con vivi e cordiali ringraziamenti l'Autore - 24 VII 1926".

Lo studio fu fatto non solo per dare un'idea esatta della flora egizia dei tempi antichi, ma anche per "portare chiara luce"', come scrive lui stesso, "su problemi attinenti alla storia, alle migrazioni dei popoli che successivamente abitarono l'Egitto, alle relazioni con i popoli vicini, alla storia dello sviluppo della civiltà e della cultura umana". Così Mattirolo dipanò l'arcobaleno. Il suo studio isola almeno 18 differenti specie di vegetali suddivise in tre categorie, secondo il loro utilizzo: le ghirlande, le decorazioni floreali, le pietanze e le spezie.

Balza fuori in tre dimensioni un ambiente sfolgorante, dai colori brillanti, che sono gli stessi per le pitture, le vesti, gli addobbi, gli scritti: il verde, il rosso, il giallo, il blu. Il verde tenero dei meliloti dai fiorellini gialli, l'azzurro carico dei fiori delle ninfee, molto celebre la Nymphaea coerulea, raffigurata ovunque sui papiri e nelle pitture; il celeste della Centaurea depressa dalle foglie bianche, parente del nostro fiordaliso e i grandi frutti rossi dell'alberello sempreverde Mimusops kummel.

Il loto ha una connotazione solare, che gli deriva dal suo aprirsi e chiudersi con i raggi del sole, si apre all'alba e si richiude al tramonto; ha un valore simbolico e forse pratico dettato dalla necessità che i fiori non appassissero prima della cerimonia funebre mattutina. Venivano intrecciati alle foglie di dattero creando sfarzose ghirlande: "La scelta dei fiori e delle erbe dimostra nei congiunti dell'architetto una rara facoltà di percezione delle armonie cromatiche", scrive Mattirolo. Tre ghirlande furono depositate sui due coperchi dei sarcofagi interni, i quali racchiudevano, messi uno sull'altro, la salma mummificata di Kha: mentre la quarta adorna il collo e il petto della statuetta o "doppio" del defunto, l'"ushabti".

Fiori e frutti d'Egitto

L'Egitto produce fiori in abbondanza da sempre, è una terra floreale per eccellenza per la facilità di coltivazione in un clima propizio tutto l'anno. Nel tempio del dio Amun a Karnak è finemente dettagliato un rilievo conosciuto come "Il giardino botanico" dove sono rappresentate piante native sia dell'Egitto, fichi, viti e loti sia portate dal Medio Oriente come l'Iris L., l'Arum L. e la Kalanchoe (Adans.) per celebrare le vittorie militari di Tuthmosis III, coevo dell'architetto.

Tra le offerte non manca il cibo, per l'anima. Alcuni prodotti sono contenuti in piatti o ciotole di terracotta o faience. Il ginepro siriaco (Junipherus drupacea), oggi allo stato selvatico in Siria, Grecia e Asia Minore, fu introdotto in Europa nel 1854 da Teodoro Kotschy; ha frutti dolci, i galbuli, che venivano consumati abitualmente nell'antichità. Il nasturzio degli orti degli italiani era largamente usato dagli egiziani antichi e lo è tuttora: dal Lepidium sativum, originario d'Oriente, si ottiene un principio eccitante, utilizzato come condimento, il suo sapore è vagamente simile alla senape. Per aromatizzare le vivande era anche allora utilizzato il cumino (Cuminum Cyminum), pure menzionato nei papiri medicali. Non mancava neppure una variante del nostro aglio, l'Allium ampeloprasum.

La frutta è ben rappresentata nell'elenco di Mattirolo. si trovano le noci di palma-dum (Hyphaene thebaica), i datteri (Phoenix dactilifera), le bacche (Zyzyphus Spina-Cristi) e (Mimusops kummel), i siconi di sicomoro (Ficus sycomorus), le mandorle (Amygdalus communis) e gli acini d'uva (Vitis vinifera). Si consumava in genere fresca e in composta, come quella ritrovata nella tomba, una vera leccornia. Il vino era una bevanda riservata quasi esclusivamente alle famiglie benestanti.

Mattirolo era sapiente e ironico e scriveva: "I fruttivendoli dell'antichità ebbero le stesse caratteristiche di quelli odierni, ingannatori di vivi e di morti: se la soave Merit, durante il viaggio per raggiungere il Regno di Osiride, avesse affondato i suoi dentini di avorio nella carne succosa delle frutta deliziose oggetto delle offerte funerarie, avrebbe ringraziato con riconoscenza gli amici e le amiche lasciati nel mondo dei viventi; ma se avesse invece portato alle labbra quelle che stavano sotto la superficie avrebbe provato ben altro sentimento e un amaro gesto di dispetto avrebbe contratto le sue rosee labbra".

Oreste non ci ha mai lasciati, possiamo incontrarlo ancora oggi, leggendo i suoi libri nella biblioteca e passeggiando nel "suo" Orto Botanico sulle rive del Po, in viale Mattioli 25 a Torino; a ogni passo si sente la sua presenza. La sua ultima residenza è il Cimitero monumentale di Torino: Oreste Mattirolo, figlio dell'avvocato Girolamo, nato nel 1856: pizzo e grandi baffi bianchi in forte contrasto con i capelli bruni. Primitivo - nicchione 254. Merita di sicuro una visita.

 

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