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I nidi dell’uomo: un’architettura senza autori

Dalle case di terra in Africa ai prolungamenti di roccia delle alpi: ecco come gli insediamenti primitivi ci insegnano a ripensare l'architettura per tornare a creare luoghi a misura d'uomo

  • Roberto Dini
  • novembre 2010
  • Martedì, 2 Novembre 2010

· G. De Carlo, Tortuosità, Domus n. 866, 2004.
Sono passati più di quarant'anni da quando lo studioso e architetto americano Bernard Rudofsky pubblicò il volume Architecture without architects (Architetture senza architetti), inedito e originale punto di vista sull'architettura spontanea. Il libro consisteva in una esauriente carrellata di architetture e insediamenti umani primitivi dislocati in ogni parte del mondo – dalle case di terra dell'Africa ai paesaggi terrazzati della Cina, dai villaggi fortificati del Caucaso ai trulli di Alberobello –, esempi di straordinaria raffinatezza nati senza alcuna forma di pianificazione, senza un progetto né un autore o un professionista incaricato. Realizzazioni del tutto spontanee nate per mano dell'uomo e allo stesso tempo in perfetta sintonia con l'ambiente ed il territorio circostante. Se negli anni '60 il libro di Rudofsky si poneva in maniera critica nei confronti del movimento modernista di allora – mettendone in discussione la visione totalizzante basata sull'idea di una progettazione dell'architettura e della città dall'alto verso il basso –, una riflessione sull'architettura primitiva può tornare utile ancora oggi per aiutarci riflettere sull'attuale modo di costruire, abitare e vivere le nostre città. Proprio oggi che la parola sostenibilità è sulla bocca di tutti e che sulla retorica dell'eco-compatibilità si fondano progetti e realizzazioni di ogni sorta, queste immagini risultano estremamente attuali e ci possono dare una mano a riscoprire il significato più profondo dei luoghi in cui viviamo, ad andare alla radice di pratiche arcaiche come quella del costruire, di cui oggi si rischia talvolta di perdere il senso nei convulsi e frenetici processi di urbanizzazione del pianeta. Queste affascinanti testimonianze – oggi ritenute paesaggi d'eccellenza - non rispondevano ad altro che alla primordiale esigenza dell'uomo di costruirsi un nido, un rifugio per cercare protezione dalle intemperie, dagli animali, da altri uomini. Ciò che caratterizza maggiormente l'aspetto di questi luoghi è la straordinaria integrazione tra contesto geomorfologico e antropizzazione. Forme degli edifici e forme del territorio si situano in una stupefacente consequenzialità. Si tratta di insediamenti che nascono nel territorio e dal territorio, in una sorta di totale simbiosi con la tettonica del sito: il suolo, le rocce, i rilievi non sono considerati ostacoli da superare ma al contrario elementi essenziali nell'organizzazione degli spazi e nella strutturazione del costruito. L'organizzazione logica degli spazi, la razionalità di ogni scelta costruttiva, l'utilizzo intelligente di materiali reperiti in loco danno vita ad architetture che diventano veri e propri paesaggi, un tutt'uno con il suolo, una composizione armoniosa in cui si intrecciano elementi naturali e antropici e in cui è ormai impossibile distinguere l'uno dall'altro. L'armonia che oggi noi percepiamo nell'osservare questi luoghi nasce proprio dal fatto che i materiali e le azioni del costruire fossero il frutto di misura, necessità, intelligenza. La fatica richiesta per la posa di ogni singola pietra richiedeva una saggia e consapevole ottimizzazione delle risorse e dei gesti. I vincoli imposti dalla disponibilità limitata di materiali, dalle qualità tecnologiche degli stessi, dai limiti muscolari di uomini e bestie, dalle caratteristiche orografiche e ambientali, suggerivano una "giusta misura" che sottendeva costantemente alla progettazione e alla realizzazione degli edifici e che si traduceva, da un punto di vista estetico, in una sorta di continuum con la geomorfologia dei luoghi. Una sorta di architettura organica spogliata di ogni retorica, in cui la razionalità costruttiva – che richiede naturalmente chiarezza strutturale e compositiva – viene declinata in modo specifico rispetto alle condizioni imposte dai diversi terreni con cui ci si misura. Architetture adattabili che – attraverso anche minimi aggiustamenti – mettono in forma una sorprendente coerenza tra il dentro e il fuori, tra la parte e il tutto, tra il naturale e l'artificiale.
In estrema sintesi – da un punto di vista squisitamente compositivo – si possono individuare due approcci differenti ma complementari che caratterizzano queste primitive costruzioni. In primis, realizzazioni in cui il sottosuolo viene adattato per "sottrazione" alle esigenze funzionali umane per dar vita a una sorta di architettura in negativo. Si pensi alle abitazioni ricavate nelle cavità naturali e nelle grotte, oppure a quegli spazi scavati nel sottosuolo o ancora svuotando e modellando la superficie terrestre. Diversamente, vi sono insediamenti realizzati aggiungendo solo pochi e minimali elementi alle forme originali del suolo. Un tetto, un architrave, un muro, un solaio, sono talvolta sufficienti per dare vita a un'organizzazione degli ambienti molto articolata, in grado di tenere assieme funzioni e modalità di fruizione dello spazio estremamente diversificate, in cui il "dentro" e il "fuori" fanno parte della stessa architettura. Generalmente si tratta di modalità costruttive come si è detto complementari, in cui ciò che si toglie da una parte viene riutilizzato dall'altra, al fine di ottimizzare gli sforzi e le risorse. È il caso ad esempio dei paesaggi terrazzati, in cui le operazioni di scavo e di riporto rimodellano completamente la parte più superficiale del terreno creando una sorta di nuovo suolo artificiale. Queste straordinarie realizzazioni sono state da sempre accuratamente studiate per via del loro indiscutibile valore storico e documentaristico, mentre manca un'attenta analisi dal punto di vista compositivo. Queste "architetture senza architetti" rivelano infatti una cultura dell'abitare estremamente evoluta che si fonda su una padronanza consapevole e colta delle soluzioni spaziali e tecnologiche più adatte per costruire nelle condizioni e negli ambienti più diversi, nonché una conoscenza delle tecniche costruttive e compositive diffusa, in grado di garantire un elevato livello di qualità nella produzione ordinaria del costruito, che rimane la stessa tanto per gli edifici di eccellenza quanto per quelli minori. Ci insegnano dunque a guardare e a ripensare "architettonicamente" il paesaggio, per tornare a creare luoghi a misura d'uomo a partire da un confronto continuo con il territorio e con la morfologia del suolo e soprattutto per costruire "tessuti" o "brani" di paesaggio e non semplicemente architetture elitarie che, per quanto di qualità, rimangono esempi isolati. Una grande lezione di architettura e progettazione sostenibile che ci arriva dai saperi primitivi e dalla cultura materiale, e che può suggerire ancora oggi un approccio nuovo, più intelligente e consapevole verso il territorio, per tornare a considerarlo – come ricorda Alberto Magnaghi, maestro nelle pianificazioni del territorio – la più grande opera d'arte corale che l'uomo abbia mai realizzato.

Per saperne di più
· B. Rudofsky, Architecture without architects. A short introduction to non-pedigreed architecture, Doubleday & C., New York, 1964
· M. Panizza, S. Piacente, Geomorfologia culturale, Pitagora Ed., Bologna, 2003
· G. De Carlo, Tortuosità, Domus n. 866, 2004.

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