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Gusto, dunque sono

intervista a Paolo Massobrio a cura di Mauro Pianta

  • Mauro Pianta
  • ottobre 2010
  • Sabato, 14 Agosto 2010

Paolo Massobrio conduce da oltre vent'anni una battaglia per la riscoperta di una cultura popolare attraverso il gusto e contro l'omologazione dei sapori. Milanese di origini monferrine, è considerato uno dei "guru" del giornalismo enogastronomico. Scrive su La Stampa, ma lavora anche in tv, in radio, in campo editoriale (famose le edizioni annuali de il Golosario e della Guida Critica e Golosa). Senza trascurare la sua "creatura" prediletta: il Club di Papillon (www.clubpapillon.it), un'associazione nazionale che è arrivata a quota 6mila soci e 50 sedi in tutta Italia.

Allora Massobrio, partiamo dall'inizio: che cos'è il gusto?
È uno dei fattori che meglio spiega chi siamo, nel senso proprio del significato esistenziale. Il gusto non è una faccenda per ricchi o poveri, di destra o di sinistra. È un dato, qualcosa che ci interpella almeno tre volte al giorno, tante sono quelle in cui desideriamo avere un cibo o una bevanda. Il gusto risponde ai nostri desideri, che non sono solo quelli della nutrizione. Se fosse solo così, basterebbe una pillola. Ma la logica di chi il gusto lo vuole appiattire non va poi troppo distante. Il gusto invece è un segno di libertà, che non si può incanalare più di tanto: ha a che fare coi ricordi, con una terra, con dei momenti della vita in cui un cibo è stato un'occasione potente di comunicazione. Un cuoco, infatti, è un comunicatore, come un poeta o un artista.

Perché in Italia esiste una cultura del gusto che invece sembra essere assente nei paesi anglosassoni?
Perché l'Italia è un paese unico. Soltanto noi abbiamo 1000 vitigni, un paese importante come la Francia, forse, non arriva a 100. Nella storia il nostro paese, lungo e stretto, ha trattenuto tutto ciò che è passato. E ha trattenuto saperi e anche sapori, tanto che oggi possiamo contare differenze tra un paese l'altro, anche a distanza di pochissimi chilometri. Questa è l'unicità dell'Italia, che nel mondo è riconosciuta, anche se spesso non capita. È la nostra forza: non a caso l'Expo del 2015, che dovrà rappresentare l'occasione del grande viaggio nel paese del mito, parte proprio dal mito alimentare.

Qual è stata negli ultimi 20 anni l'evoluzione del gusto?
Lo snodo è stato il 1990, anno che segna una rinascita, quasi una rivoluzione. In quel momento abbiamo visto tanti giovani tornare alla terra, dapprima con il vino e poi via via con tutti gli altri prodotti agricoli e dell'artigianato alimentare. Dico rivoluzione perché questi giovani hanno parlato ai consumatori delle loro generazioni, ma hanno anche dato una nuova classe di cuochi o di gestori di locali. Sono nati i wine bar, e in poco tempo, nel centro storico di ogni città, si è iniziato a servire il vino nei calici di cristallo, segno di un chiaro mutamento di costumi che prosegue ancora oggi.

Qual è stato il ruolo della "tecnologia" in questa mutazione?
È interessante osservare un paradosso. Negli anni Ottanta, ad esempio nel vino, si è scoperta la tecnologia, che ha portato a un generale innalzamento della qualità. Ma anche a un appiattimento, se vogliamo, verso l'alto, che alla fine è diventato noia. La vera novità invece è arrivata sempre da un movimento di giovani capace di riallacciare un filo rosso con i propri nonni, tornando a pratiche antiche che si sono rivelate moderne e vincenti. Pensiamo solo alla biodinamica. Se oggi si va in qualsiasi ristorante di un certo livello, e si scorre la carta dei vini, si scopre che c'è una parte che propone proprio quei vini lì. Vini con prezzi importanti, ma che sono richiesti, perché hanno il sapore della loro terra di origine. È accaduto nel vino come in tutti gli altri campi. Chi ci legge ricorderà certamente la spuma, il chinotto, il ginger, la cedrata, insomma quelle bevande popolari che hanno fatto breccia dal dopoguerra fino agli anni ottanta. Ebbene, sono state talmente esasperate, dal punto di vista industriale, che si sono persi i connotati del gusto di origine. Oggi si scopre che la gazzosa, ad esempio quella di Lurisia, è richiestissima e così il chinotto, tanto che Oscar Farinetti ha dovuto creare una fabbrica apposta. Ma anche Teo Musso, che è il leader del fenomeno dei microbirrifici, ha creato ginger, spuma e cedrata che tolgono la sete, non che l'accentuano con la dolcezza stucchevole di certe bevande industriali. Che cosa vuol dire? Che si è tirata troppo la corda, dando per scontato che il consumatore avesse perduto la memoria o che il gusto fosse quello codificato dall'industria. E invece no. Il gusto è oggettivo.

Come si mangia nei parchi italiani?
Non c'è ancora una distinzione che lega il parco a un prodotto o a una cucina, se non in sporadici casi. Anche se non è del tutto vero perché il parco non deve essere inteso come un'area delimitata, quasi un porto franco, ma deve essere concepito come parte della cultura della gente che vive nei paesi intorno. Se penso al parco di Rocchetta Tanaro, ad esempio, non posso non fare riferimento alla cucina straordinaria che si offre in paese, ai vini, all'artigianalità alimentare che si è sviluppata, forse anche grazie a questa presenza di forte naturalità.

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