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Tartufi quando il laboratorio aiuta la tavola

Le nuove tecniche scientifiche consentiranno di valorizzare sempre più i piaceri della tavola


Quanto si è scritto e si continua a scrivere sul tartufo è talmente copioso che riesce difficile trovare qualcosa di nuovo o originale da dire, ma per i nostri lettori abbiamo voluto gettarci nella tenzone e provare a descrivere profili di conoscenza forse meno noti su questo che, diversamente da quanto tanti credono, non è un vegetale. Per farlo ci siamo rivolti a chi di mestiere i tartufi e non solo, li studia da decenni: Paola Bonfante, direttore adesso del Dipartimento di Biologia Vegetale dell'Università e prima del Centro di Studio sulla Micologia del terreno del CNR, un classico luminare della materia, con trent'anni di ricerca sulle spalle e che in una lunga intervista ci ha raccontato qualche frammento delle relazioni scienza-tartufo. Molti sanno che il tartufo appartiene alla famiglia dei funghi cosiddetti "ipogei", ossia che crescono sotto terra. Pochi sanno che i funghi, dopo gli insetti, sono il gruppo biologico più numeroso sul pianeta. Si stima esistano almeno mezzo milione di varietà fungine e da tempo sono stati elevati al rango di un regno a sé, alla stregua del regno vegetale o animale non appartenendo quindi né all'uno né all'altro. Tanto è importante la materia che negli anni si è sviluppata la etnomicologia che studia il rapporto fra l'uomo e i funghi, un rapporto documentato sin dall'età della pietra che coinvolge intimamente l'uomo. Giusto per dare qualche sommario cenno, si può dire che pane, birra, vino, formaggi, penicillina, antibiotici esistono grazie ai funghi che però possono essere anche causa di malattie. Anche il territorio è caratterizzato dai funghi, tanto che si potrebbe dire "Paese che vai, funghi che trovi" visto che ogni paese ha le sue varietà ed in alcuni continenti come l'Australia questo regno è ancora tutto da esplorare. Attraverso la filogeografia, che studia la distribuzione geografica delle linee genetiche che sono presenti nelle popolazioni di una specie o gruppi di specie, è stata studiata la distribuzione del tartufo anche nel passato. Così si è scoperto che, alla fine della glaciazione, 10.000 anni fa, il Tuber melanosporum seguì le querce dalle zone più meridionali e calde dell'Italia e della Spagna verso le valli francesi, mentre il Tuber magnatum Pico o Bianco d'Alba non ha mai superato le Alpi, restando confinato nelle colline e nelle pianure padane per arrivare sino all'Istria, Croazia, Slovenia e Ungheria I tartufi si riducono a oltre una sessantina di specie presenti in Europa America e Australia. In Italia sono presenti circa 25 varietà e di queste solo poche sono ricercate e, in base alla legge 752 del 16 dicembre 1985, solo 9 specie in tutto sono commercializzabili: 1) Tuber magnatum Pico, detto volgarmente tartufo bianco; 2) Tuber melanosporum Vitt., detto volgarmente tartufo nero pregiato; 3) Tuber brumale var. moschatum De Ferry, detto volgarmente tartufo moscato; 4) Tuber aestivum Vitt., detto volgarmente tartufo d'estate o scorzone; 5) Tuber aestivum var. uncinatum Chatin, detto volgarmente tartufo uncinato; 6) Tuber brumale Vitt., detto volgarmente tartufo nero d'inverno o trifola nera; 7) Tuber Borchii Vitt. o Tuber albidum Pico, detto volgarmente bianchetto o marzuolo; 8) Tuber macrosporum Vitt., detto volgarmente tartufo nero liscio; 9) Tuber mesentericum Vitt., detto volgarmente tartufo nero ordinario. E continuando a parlare dei mangerecci, pare che i primi cultori dei tartufi in cucina fossero gli antichi Greci e Romani. Ma per avere il primo trattato ad essi dedicato si dovette attendere qualche secolo quando un italiano Alfonso Ciccarelli nel 1564 pubblicò Opusculum de Tuberibus. Da allora gli scritti si sono moltiplicati per arrivare agli oltre 1500 testi di oggi come stimati da Anna Fontana già Direttrice del Centro di Studio Micologia del Terreno (CSMT) del CNR. In Piemonte il prof. Oreste Mattirolo fondatore della Facoltà di Agraria a Torino sin dalla fine '800 iniziò a studiare i funghi ipogei e in particolare la simbiosi localizzata nell'apparato radicale tra un fungo e una pianta superiore. Da questa simbiosi si sviluppano delle strutture caratteristiche che gli addetti ai lavori chiamano "Micorrize", essenziali per il completamento del ciclo vitale e per la creazione del corpo fruttifero particolarmente aromatico a tutti noto come tartufo. Il Mattirolo diede così il via ad una ricerca scientifica che ancora oggi vede l'Italia, e Torino in particolare, all'avanguardia nel mondo in questo campo. Il CSMT-CNR fondato nel 1951 dal micologo Beniamino Peyrronel è infatti l'unico in Italia a dedicarsi in modo istituzionalizzato ai funghi del suoloe in particolare a quelli micorrizici. Interessante la "joint venture" fra le piante e i tartufi. Questi ultimi infatti sono alquanto selettivi e non si accontentano di una pianta qualunque, ma esigono specie particolari. Il tartufo nero cresce solo con alcune varietà di quercia: Roverella, Leccio, Cerro, oltre che col Tiglio, il Carpino Nero, il Nocciolo ed il Cisto che è un cespuglio. Quello bianco oltre alle citate varietà (ad esclusione del Cisto e del Leccio) cresce anche sulle radici della Farnia, del Rovere e su diverse varietà di pioppo: Nero, Bianco, Carolina e Tremulo, sulle radici del Salicone e del Salice Bianco. L'accordo fra i rappresentanti dei due regni, quello vegetale e quello fungino, prevede che la pianta fornisca al fungo ipogeo gli zuccheri sintetizzati dalla fotosintesi clorofilliana che esso non è in grado di svolgere e quest'ultimo ricambia rilasciando minerali indispensabili alla pianta quali fosforo e azoto. Diversamente da tanti loro parenti "patogeni", ossia generatori di malattie, i tartufi quindi vivono pacificamente e nel reciproco interesse con la pianta ospite. I funghi possono esser considerate delle "scatole nere" della natura. La loro distribuzione sul territorio, sia attuale che passata, attraverso i reperti fossili, consente di comprendere la storia evolutiva delle piante. I funghi simbionti sono stati sicuramente essenziali alla conquista delle terre emerse da parte delle piante. Attraverso essi si può anche testare lo stato di salute del suolo. Essi infatti assorbono i metalli pesanti dal terreno in misura tale che a 25 anni dall'incidente di Chernobyl, Greenpeace ha misurato nei funghi attorno alla centrale livelli di Cesio 137 di 288.000 Bq/kg (Becquerel per chilogrammo) pari a 155 volte oltre i limiti consentiti. I miceti, altro nome dei funghi, riescono infatti a sopravvivere all'inquinamento bloccando i metalli pesanti sulla superficie delle loro pareti cellulari, o immobilizzandoli dentro i loro vacuoli. Questa interessante caratteristica è stata oggetto di studio da parte dei gruppi di ricerca del Dipartimento di biologia vegetale e del CNR nell'ambito di progetto dedicati alle biotecnologie ambientali: essa può aprire interessanti prospettive all'uso combinato di piante e funghi per il risanamento dei luoghi inquinati. Fra tutti i funghi mangerecci, il tartufo è, come tutti sanno il più pregiato ed è diventato oggetto di un importante mercato. Basti pensare che nel 2010 il prezzo, per pezzature media di 20 grammi, si aggirava attorno ai 220 € all'ettogrammo crescendo sensibilmente con il crescere delle dimensioni. Inevitabilmente quindi si presta a contraffazioni e truffe di vario genere. Dai vari alimenti a base di tartufo, (formaggi, salumi, paste, salse) "arricchiti" dalla sua presenza, sino alla vendite delle piccole piante tartufigene o più propriamente micorrizate che hanno (o dovrebbero avere) le radici colonizzate dai funghi ipogei e che vengono vendute a caro prezzo. In passato era difficile verificare la reale presenza di tartufo negli alimenti piuttosto che il ricorso ad aromi artificiali, così come difficoltoso se non impossibile era l'accertamento dell'effettiva e corretta micorrizazione delle piante. Grazie allo sviluppo a partire dagli anni '90 delle tecniche di diagnostica molecolare, si sono identificate sequenze di DNA che permettono di riconoscere e distinguere i diversi tartufi, tra cui il Tuber magnatum, il più prezioso tra tutti, e che, grazie a tali sonde, può essere identificato con certezza anche durante la fase simbiontica. Con questo sistema è stato scoperto che solo il 15-20% dei campioni di piante esaminate era correttamente micorrizato, e soprattutto in situazioni controllate, quali celle climatiche e serre. L'assenza di micorrize di T. magnatum nei vivai, insieme al frequente ritrovamento di bianchetti quali il T. maculatum e il T. borchii, indicano una scarsa competizione del T. magnatum in queste condizioni. Dalle ricerche sono emerse anche le condizioni ambientali necessarie alla crescita dei tartufi. Se in un recente passato l'unica indicazione disponibile per chi voleva allestire una tartufaia sperimentale era l'analisi chimico-fisica del suolo, oggi è possibile affiancare a questa una analisi molecolare, una vera carta d'identità, in grado di rilevare l'eventuale presenza del micelio di T. magnatum nel suolo. Quindi è possibile stabilire non solo se un terreno è vocato alla tartuficoltura, ma anche rilevare la persistenza del prezioso micete in tartufaie di impianto. Parallelamente alla tracciabilità del pregiato bianco T. magnatum, è stato possibile anche tracciare il tartufo pregiato nero, T. melanosporum, che si trova spontaneamente in Italia, Francia e Spagna ma viene anche ottenuto in tartufaie sperimentali in altri paesi quali Israele, Stati Uniti e Nuova Zelanda. Da un punto di vista ecologico la presenza di questo fungo nel suolo è associata, a differenza del T. magnatum, alla formazione del pianello, meglio noto con la parola francese brulé, una zona intorno alla pianta ospite caratterizzata da assenza o scarsità di vegetazione ed entro cui si raccolgono generalmente i tartufi. Ipotesi sulla formazione del pianello hanno suggerito un effetto fitotossico dovuto al tartufo, tuttavia i meccanismi con cui questo processo avviene sono del tutto sconosciuti. In uno studio condotto sul suolo di tartufaie francesi buone produttrici di tartufo è stato accertato che il T. melanosporum è il tartufo dominante in questo ambiente in cui diminuiscono in percentuale altre specie fungine, evidenziando quindi un effetto competitivo del tartufo nero e un suo ruolo importante nella formazione del pianello. La tradizione francese nel settore della tartuficoltura è notevole. Da secoli infatti in Francia si coltivavano i tartufi neri e in assenza di conoscenze scientifiche i contadini diffondevano semplicemente le radici delle piante tartufigene. Ma il tempo della Scienza non è passato invano: nel 2007 in un meeting tenutosi a Torino, ad opera di un consorzio italo-francese, coordinato da Francis Martin, direttore di Ecogenomics of interactions di Nancy, un Centro specializzato nei sequenziamenti genomici, fu lanciato un progetto per il sequenziamento del DNA del tartufo nero del Périgord (Tuber melanosporum). Il sequenziamento è il metodo che consente di descrivere tutte le informazioni genetiche ereditarie che sono presenti nel DNA di un organismo e che sono alla base dello sviluppo di tutti gli organismi viventi. I risultati della ricerca, che ha visto attivamente coinvolto il gruppo di ricerca di Torino tra cui la dottoressa R. Balestrini del CNR, furono pubblicati nel marzo 2010 sulla prestigiosa rivista Nature, ed ebbero grande riscontro sulla stampa di tutto il mondo. La conoscenza del genoma del tartufo è stata una chiave di volta per capire la biologia di questi organismi che sono considerati dei biofertilizzatori naturali. L'analisi ha svelato, senza più ombra di dubbio, che questo fungo è eterotallico, ossia porta caratteri genetici che permettono il processo di fecondazione su individui differenti, analoghi a maschi e femmine. Sulla base di questa scoperta sarà presto possibile selezionare individui di segno opposto per garantire la compatibilità sessuale e il successo riproduttivo in programmi di tartuficoltura che si potranno svolgere finalmente su base scientifica. Questa scelta di bilanciamento degli individui si tradurrà in una maggiore produttività del tartufo nero nelle tartufaie di impianto in cui le piante ospiti dovranno presentare individui di sesso opposto. Altre informazioni di carattere applicativo che emergono sono le migliaia di marcatori genetici sparsi lungo tutto il genoma e che potranno essere impiegati per evidenziare polimorfismi genetici, ossia variazioni genetiche presenti nella stessa popolazione di tartufi provenienti da diverse aree e quindi utili per classificare i tartufi sulla base della loro provenienza. L'analisi del genoma ha anche evidenziato il ridottissimo potenziale allergenico (ossia la capacità di causare allergie) del tartufo, che viene pertanto riconosciuto come sicuro, in quanto in esso mancano i geni capaci di creare le temibili micotossine. Inoltre, sono stati individuati i geni responsabili della formazione dei composti volatili che costituiscono l'aroma del tartufo (isoprenoidi, alcools e, soprattutto, composti solforati). L'insieme di queste informazioni permetterà di definire un profilo genetico molecolare che coniughi l'origine geografica dei tartufi neri con il loro aroma. Grazie alla conoscenza del genoma, il fine ultimo della rintracciabilità si traduce quindi nel controllo della qualità tanto dei tartufi freschi quanto dei prodotti al tartufo che hanno, ormai, un largo consumo. Gli strumenti molecolari messi a punto negli ultimi 15 anni insieme a una conoscenza approfondita della sistematica dei tartufi, iniziata proprio a Torino, permettono pertanto di identificare con certezza le specie di tartufo presenti sulla nostra tavola. Ma anche i tartufi in scatola possono essere identificati su questa base. Per i prodotti al tartufo l'osservazione delle spore e la messa a punto di un metodo che permetta il recupero di DNA costituiscono lo strumento per svelare il segreto contenuto. Se oggi è possibile quindi sapere quali specie sono state usate in un prodotto, ben poco si sa sulla loro origine. È quindi al genoma che si affidano le prospettive di rintracciare l'origine geografica dei tartufi che sono adoperati in vario modo nell'industria alimentare. Basti pensare che in Italia, il tartufo fresco e lavorato ha un mercato che supera i 300 milioni di euro. Naturalmente fra tanti benefici e tante opportunità qualche pericolo si nasconde. Sentendo parlare di genoma e DNA il pensiero corre subito alle piante ed agli animali transegnici. Perché quindi non un tartufo in vitro, usando metodi di trasferimento genetico? L'eventualità, per ora, non è l'obiettivo delle ricerche che si stanno conducendo, come conferma la prof.ssa Bonfante. Anzi queste ricerche consentiranno di disporre di strumenti molto utili per garantire la sopravvivenza di un prodotto naturale eccezionale come il tartufo; questi strumenti sono a disposizione delle Agenzia locali e di chi volesse indagare sulla provenienza dei tartufi, in quanto oltre al loro preciso riconoscimento, essi consentono anche di tracciare la loro storia e provenienza. Sarebbe infatti difficile distinguere solo su base morfologica ossia sulla loro forma ed aspetto un T. melanosporum da un T. himalayense o da un T. indicum, specie che non hanno valore commerciale. Così come risulterebbe difficile distinguere il bianchetto (T. borchii) dal T. maculatum non presente nella lista della legge 752. Quindi viva la ricerca sia essa in laboratorio o nei boschi.

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