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Nei parchi, tra nuovi agricoltori e antichi saperi

La riscoperta di antichi metodi di lavoro agricolo non è un semplice ritorno al passato. Ce lo spiega chi lavora per i parchi naturali insieme ad alcuni personaggi direttamente interessati al tema.

  • Elisa Rollino
  • Febbraio 2022
Mercoledì, 30 Marzo 2022
Fiera delle Capanne di Marcarolo 2016  - Foto E. Celona Fiera delle Capanne di Marcarolo 2016 - Foto E. Celona

Trazione animale, terrazzamenti, antiche tecniche di gestione della risorsa idrica: nei territori di alcune Aree protette rifioriscono metodi di lavorazione e paesaggi agricoli del passato. Spesso questo succede grazie a progetti promossi dai Parchi, altre volte l'ente favorisce l'incontro di agricoltori che guardano al metodi di lavoro dei padri e dei nonni con sguardo innovativo e con nuove competenze scientifiche. Tanto che non si può parlare di un semplice ritorno al passato.

Trazione animale: non chiamatelo ritorno al passato

Non è un tuffo nel passato e nemmeno semplicemente la riscoperta di un antico metodo di lavoro: per gli agricoltori approdati al mondo della trazione animale, ricorrere a buoi, asini, muli e cavalli, anziché al trattore, è un modo per adattarsi alla congiuntura economica attuale, ricorrendo alle nuove scoperte tecniche e scientifiche. "Dalla scelta dell'attrezzatura, alla preparazione dell'animale, alla gestione del campo... tutto nasce da una riflessione scientifica moderna". A sostenerlo è Marco Spinello della società cooperativa La Masca di Roccaverano dove, con tre soci, alleva capre per produrre formaggio. Il territorio in cui opera fa parte dalla zona speciale di conservazione Langhe di Spigno Monferrato, che raggruppa i comuni alessandrini di Merana e Spigno Monferrato e quelli astigiani di Mombaldone, Roccaverano e Serole, e fa riferimento all'ente di gestione delle Aree protette dell'Appennino Piemontese.
Perito agrario, Spinello ha lavoro in Francia nel settore dei progetti europei per aiutare i giovani a costruire opportunità di lavoro e di vita nelle zone svantaggiate e non ha mai perso l'attenzione per le esigenze di chi si affaccia al mondo dell'agricoltura. Nella trazione animale ha trovato risposta ad alcuni problemi che affliggono i giovani che vogliono affacciarsi a quel settore professionale: "L'accesso alla terra e al credito è limitato, spesso vanno a cercare siti aziendali in zone dove la terra costa meno, ritrovandosi quindi in aree marginali, dove condurre i campi è più complesso. Io le chiamo 'zone difficili'"  perché non sempre sono ben accessibili con i mezzi agricoli: a volte mancano le strade e allora entra in campo l'animale che permette comunque di raggiungere i campi e di lavorarli anche in questa situazione". Spinello è formatore per gli agricoltori che si avvicinano al mondo della trazione animale, lavora con aziende, enti pubblici e associazioni come WWOOF (World Wide Opportunities on Organic Farms) Italia, che promuove esperienze educative e culturali mettendo in relazione volontari e aziende rurali pronte ad ospitarli. "In quindici anni ho visto partire numerosi progetti legati alla trazione animale, circa tre all'anno" prosegue Spinello, che si occupa anche della preparazione degli asini adatti a lavorare in azienda: li compra, li addestra e li rivende una volta pronti ad affrontare i campi.
I giovani agricoltori si avvicinano alla trazione animale spesso perché l'investimento nell'acquisto incide molto meno rispetto alla meccanizzazione: "In due anni circa possono ammortizzare la spesa, mentre per un trattore in pianura ci vogliono cinque anni e molti di più per chi lavora in 'zone difficili', come possono essere quelle di montagna" sottolinea Spinello. Ma è soprattutto l'obiettivo agronomico ad avvicinarli agli animali: "Non vogliono tornare al passato ma fare agricoltura di qualità, prodotti sani, e con una certa autonomia dal mercato degli idrocarburi: mentre per i nonni la trazione animale era una questione di sopravvivenza per noi è una scelta".

Cosa c'entrano i parchi?

La della Fiera del bestiame delle antiche razze locali di Capanne di Marcarolo è diventata quasi spontaneamente il punto di riferimento di chi è interessato alla trazione animale: "È una fiera che si svolge nell'estate – spiega Lorenzo Vay per le Aree protette dell'Appennino Piemontese, ente che la organizza assieme all'Ecomuseo di Cascina Moglioni – con l'obiettivo è valorizzare soprattutto due razze bovine locali: la Cabannina e la Montagnina, quest'ultima con una triplice attitudine: da carne, da latte o da lavoro".
Proprio le dimostrazioni di lavori dei campi svolti con l'ausilio di animali ha attirato un mondo: "È quello degli agricoltori interessati alla trazione animale generalmente per l'esbosco, l'orticoltura e il trasporto" sottolinea Vay.
Affidare al resistente cavallo la fienagione, al mulo infaticabile il trasporto del legname nei boschi, all'asino dal passo corto la lavorazione del terreno, è un modo di lavorare rispettoso dell'ambiente e qualcuno lo vede particolarmente adatto al mondo delle Aree protette: "È un metodo di lavoro 'sussurrato' che rispetta l'ecosistema: è particolarmente adatto alle riserve naturali, dove bisogna evitare che l'intervento dell'uomo incida sugli equilibri" spiega Marco Spinello. Sui sentieri, poi, i muli permettono di arrivare dove si accede solo a piedi o in elicottero, come per il rifornimento dei rifugi, gli animali sono utili per gli interventi di manutenzione della segnaletica.

Gli agricoltori tornano sui terrazzamenti e vince anche la biodiversità

"In genere si pensa che i terreni risparmiati dalla mano dell'uomo siano più ricchi di biodiversità, ma non è sempre così!" lo afferma Ivano De Negri, agronomo, ex direttore dell'ente di gestione delle Aree protette dell'Ossola, ora in pensione. È lui a seguire il progetto SOCIAAALP, di cui l'ente è partner, assieme al Comune di Borgomezzavalle, alla Società di Scienze Naturali del Verbano Cusio Ossola, all'Università degli Studi di Milano e all'associazione Fondiaria TERRAVIVA. Capofila del progetto è la cooperativa sociale Il Sogno.
L'obiettivo è il recupero dei terrazzamenti e dei loro appezzamenti agricoli in stato di abbandono nella Valle Antrona, in località Viganella e Cheggio, in Comune di Borgomezzavalle e a Varchignoli, nel comune di Villadossola. "Nell'arco di due anni di attività agricola sui terrazzamenti non si è registrata una diminuzione di biodiversità, anzi... alcune specie vegetali e i rettili sono aumentati" spiega De Negri. Il progetto SOCIAAALP è una prosecuzione dell'esperienza di TERRAVIVA, da cui è nata l'omonima associazione fondiaria che, dal 2017, ha aggregato circa 8 ettari di aree agricole in gran parte terrazzate. Si tratta di anche qui di zone difficili, a circa 600 metri s.l.m., dove spesso coltivare diventa un'impresa quasi eroica.
Al momento sono due le aziende che lavorano sui terrazzamenti, Zafferanossola che coltiva zafferano venduto in stimmi, e La Chanvosa che si dedica alla canapa trasformandola in prodotti come la farina, oli e tisane. Ma gli enti stanno già lavorando a un nuovo bando al fine di trovare una terza azienda a cui affidare parte del terreno.
Chi sono i nuovi agricoltori disposti a lanciarsi nell'impresa in condizioni così particolari? "Sono generalmente quarantenni, a volte anche più giovani" osserva De Negri. "Alcuni hanno svolto un percorso specifico per nuove imprenditorialità. Evelina Felisatti, dell'azienda agricola La Chanvosa, ad esempio, ha iniziato la sua attività grazie a un campus ReStartAlp per giovani imprese".
Quello che sta succedendo sui terreni inclusi nel progetto SOCIAAALP è un aspetto di un fenomeno che interessa tutta la Valle Antrona: "Anche al di fuori dei confini dell'area protetta c'è un ritorno all'agricoltura: sui terrazzamenti, ad esempio, spesso si vedono nascere nuove coltivazioni di vite finalizzate alla produzione di vino. Questo è un bene, perché oltre a recuperare un paesaggio tipico e a conservare la biodiversità, il mantenimento delle murature a secco contribuisce alla tutela idrogeologica del territorio".

Per amore e per interesse, nei campi tornano marcite e bose

Non sempre i progetti dei Parchi bastano a incentivare l'arrivo di nuove aziende agricole. Frequentemente contribuiscono però a recuperare tradizioni agricole interpretate in modo innovativo. Così è accaduto nel Parco del Ticino, a cavallo tra Piemonte e Lombardia, in un'area votata all'agricoltura ma che ha abbandonato tecniche antiche di gestione della risorsa idrica, il cui recupero favorisce la conservazione della biodiversità. "Areté, acqua in rete, è il progetto di cui il Parco è partner e che punta a migliorare la qualità degli ambienti naturali e agricoli di un'area molto vasta della Valle del Ticino, che si estende al di fuori dai confini delle aree protette: a est verso l'Alto Milanese e a ovest verso la Lomellina e le colline del Novarese" spiega Monica Perroni, responsabile del settore tecnico dell'ente di gestione delle Aree protette del Ticino e del Lago Maggiore. Supportato dalla Fondazione Cariplo, tra i partner ci sono il Parco lombardo della Valle del Ticino, la Provincia di Pavia, il Consorzio di bonifica est Ticino Villoresi, l'associazione irrigazione est Sesia, l'Università di Milano, IRSA-CNR, Legambiente, la Società cooperativa Eliante e la Società di Scienze Naturali del Verbano Cusio Ossola.
"Il progetto permette di promuovere buone pratiche agricole storiche che hanno anche un valore ambientale" spiega ancora Perroni. "Nel Parco del Ticino, ad esempio, ha promosso la nascita delle marcite che consentono di far crescere l'erba anche di inverno". Si tratta di allagare i prati con acqua mantenuta in movimento, affinché non ristagni. "Si verifica quindi una situazione suggestiva in cui, anche con la neve, c'è l'erba verde. Il vantaggio per le aziende zootecniche è poter contare su due o tre tagli in più all'anno, mentre il contributo all'ecosistema consiste nel dar ristoro agli uccelli che non hanno potuto migrare. La tecnica, antica, è caduta in disuso perché le mucche alimentate con questo fieno verde producono latte giallo che il mercato ha abbandonato in favore di quello bianco. Ora nel Parco del Ticino sono quattro le aziende agricole che hanno riscoperto l'antica tecnica".
Furori dal Parco, nell'area della Riserva della Biosfera MAB Unesco Ticino Val Grande Verbano, Areté ha favorito invece il recupero delle bose: buche nel terreno argilloso che caratterizza questa zona. Sono grandi circa 10 mq, profonde tra 1,5 e 2 metri. Durante le piogge si riempiono d'acqua e diventano una riserva utile agli agricoltori. Le bose sono cadute in disuso perché possono rappresentare un intralcio ai movimenti dei trattori. "Tuttavia sono importanti non solo dal punto di vista agricolo ma anche naturalistico: si trasformano, infatti, in scrigni di biodiversità" rivela Perroni. "Le buche contenenti l'acqua rappresentano un ambiente ideale per le libellule, e in generale gli insetti acquatici, per anfibi e rettili. Fungono anche da punto di ristoro per mammiferi e uccelli".
Il valore aggiunto del progetto Areté è stato interpretare le bose anche in chiave turistica e di promozione del territorio. "Sono spesso circondate da alberi da frutto. L'ombra le rende ideali come luogo per ripararsi durante i periodi estivi più caldi e, in passato, proprio lì si faceva merenda". Queste aree hanno la fortuna di trovarsi vicino a percorsi pedonali e cicloturistici così sono state attrezzate con pannelli didattici in grado di attirare l'attenzione di chi passeggia in zona. "Inoltre si rivelano un luogo adatto per ospitare degustazioni dei prodotti agricoli" aggiunge ancora Perroni.
Le aziende che hanno aderito al progetto di ripristino delle antiche tecniche di gestione della risorsa idrica si sono impegnate a conservarle per almeno cinque anni mosse da interessi diversi: "A volte semplicemente sono interessati ad ottenere i contributi disposti dal progetto – ammette Perroni – ma spesso si tratta giovani agricoltori che si ricordavano delle marcite e delle bose nei campi di padri e dei nonni e che, quindi, per ragioni affettive, decidono di ripristinarle".

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