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Le virtù dei piemontesi? Esageruma nen!

  • Bruno Gambarotta
  • Luglio 2011
  • Sabato, 2 Luglio 2011

A scadenze periodiche, arriva dalle varie redazioni mediatiche, radio e televisioni soprattutto, la richiesta di definire "il carattere dei piemontesi". Il tentativo di spiegare che non esiste un solo tipo di piemontese e che ci sono grandi differenze tra i biellesi e i langaroli, o tra i valsusini e gli alessandrini, non trova udienza. Si finisce allora per ricorrere al solito e vetusto catalogo dei luoghi comuni, con il sospetto che per le nuove generazioni non sia più valido. Per andare sul sicuro si comincia con il senso del dovere, che ci accompagna dalla culla alla tomba. Al centro del sistema dei valori del piemontese c'è (o c'era una volta) il lavoro; solo il lavoro conferisce dignità e definisce la posizione sociale di un piemontese. Ma deve essere un lavoro vero, penoso, che richiede fatica e sofferenza; se fai un lavoro che ti diverte, quello non è un vero lavoro: per un vecchio piemontese la qualifica di "artista" è poco meno che un insulto. Abitavo a Roma e, quando mio padre mi veniva a trovare, andavo con lui a pranzo in una trattoria; entravano in azione gli immancabili stornellatori, lui abbassava la testa sul piatto e mormorava in piemontese: "Andate a lavorare!". I Biellesi dicono, che Dio li perdoni, che "di troppo lavoro non è mai morto nessuno". Nello stupendo Battistero di Biella esiste un quadro che loro vorrebbero tenere nascosto, chiamato "il Cristo dei mestieri", dove Gesù in croce è trafitto dagli strumenti di lavoro, impugnati da tutti coloro che non resistono alla tentazione di lavorare anche durante le feste comandate. Centralità del lavoro significa accettare le gerarchie che questo comporta, sapere di volta in volta ubbidire e comandare e, suprema virtù, "saper stare al proprio posto". Fino a non molti anni fa, l'apprendista, per essere promosso operaio, doveva dimostrare le sue capacità eseguendo un compito assegnato dal caporeparto, chiamato non a caso "il capolavoro", come racconta Luigi Davì nei suoi romanzi (Gymkhana-Cross e L'aria che respiri); questo tipo umano è incarnato dall'operaio Faussone ne La chiave a stella di Primo Levi. Un altro pilastro che sorregge l'edificio dei valori piemontesi è la fedeltà. Un nomignolo venato di disprezzo con cui gli altri ci gratificano è "Bugianen!", letteralmente "Non muoverti!". Elargito come un'accusa di staticità, di resistenza a muoversi, a cambiare idee, mentalità, abitudini, luogo di residenza. Niente di più lontano dal vero. "Bugianen!" era in origine l'ordine che i sergenti dell'esercito sabaudo, chiamati all'arduo compito di piemontesizzare l'esercito italiano nei primi anni dopo l'Unità, gridavano alle reclute indisciplinate durante il presentat'arm. Prima ancora "Bugianen!" fu la consegna data dal generale Bricherasio ai soldati prima della battaglia dell'Assietta (19 luglio 1747) che segna la nascita del Piemonte moderno. Fedeltà a tutto. Alla squadra del cuore: si nasce e si muore granata o juventini. Ai compagni di scuola; secondo lo storico Giovanni De Luna, per capire come sono sorte le élite e formati i gruppi dirigenti in azienda, in banca, nei giornali, all'università, è necessario studiare la foto di classe scattata alla fine dell'anno scolastico. Il consiglio di amministrazione lo trovi tutto lì. Ogni anno, per cinquanta anni e più, guai a mancare alla cena della maturità, dove ci si conta e si fanno alleanze. Nei paesi e nei piccoli centri analoga funzione è svolta dalla "leva", cioè dall'essere nati lo stesso anno; il pranzo annuale della "leva" è sacro, l'unica giustificazione valida per mancarlo è l'essere nel frattempo morti. Per spiegarti alleanze e solidarietà fra due persone distanti fra loro su tutto, ti dicono che "sono della stessa leva". Fedeltà alla moglie: il piemontese non ha mai un'amante ma caso mai un'altra moglie che spesso e volentieri sembra una gemella della prima, alla quale fa visita con una regolarità da marito. Fedeltà al luogo di villeggiatura: per trent'anni si va ogni estate a Varigotti o a Bardonecchia, detta Bardo, "perché lì conosciamo tutti". Suprema virtù dei piemontesi è l'understatement, parola intraducibile: se non con un giro di frase, cioè la capacità di non darsi importanza. Norberto Bobbio sosteneva a ragione che il motto da scrivere sulla bandiera del Piemonte è "Esageruma nen!", cioè "Non esageriamo!"