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Nate nel "Segno della Primavera"

La bella stagione, tempo di risveglio, ma anche di fastidiosi malanni, a cui gli antichi rimediavano con piante dalla curiosa simbologia.

  • Loredana Matonti
  • marzo 2012
  • Venerdì, 23 Marzo 2012
epatica Foto L.Matonti epatica Foto L.Matonti

Maledetta primavera! È il titolo di una famosa canzone italiana di musica leggera. Stagione di amori fulminanti, che ci colgono impreparati quasi quanto le temibili e comuni influenze primaverili. E così, anziché alleggerirsi dai pesanti cappotti e uscire leggiadri a godersi il tepore primaverile, ci si ritrova a letto, rauchi, ben coperti e magari preda di una tosse stizzosa che proprio non vuole saperne di andarsene.

E se anche riuscissimo a schivare le fastidiose influenze, anziché sprizzare energia da tutti i pori, assecondando l'anelito vitale della natura che si risveglia attorno, ci trasciniamo, chi più chi meno, con spossatezza, sonnolenza e mancanza di concentrazione.

Effetto dello sforzo di adattamento alla nuova stagione e del cambiamento del metabolismo corporeo. Guardandosi attorno, proprio in questa stagione spuntano e fioriscono anche delle graziose piantine, dall'aspetto poco appariscente, che venivano impiegate in Piemonte, dai nostri antenati per rimediare a questi "mal di primavera" e, anche se oggi il loro impiego è praticamente abbandonato, rappresentano un curioso aspetto della nostra tradizione.

In particolare perché i nomi scientifici e volgari di tali specie sono spesso un "biglietto da visita", rivelatorio delle loro proprietà medicinali, retaggio dell'antica e ormai nota dottrina dei "Segni" o delle "Segnature", credenza secondo la quale si potevano dedurre empiricamente gli impieghi medicinali osservando l'analogia tra aspetto della pianta e organo o malattia da curare.

È il caso della polmonaria (Pulmonaria officinalis L, famiglia Borraginacee), pianta comune che fiorisce in primavera e cresce nei boschi freschi e umidi. I suoi graziosi fiori vanno dal rosa al viola, fenomeno comune a molte specie della stessa famiglia, che è dovuto ad un cambiamento di pH all'interno delle cellule dei petali. Questo varia da acido ad alcalino quando il fiore viene fecondato; una sorta di "messaggio", colto da chi può intenderlo, ovvero da insetti impollinatori quali le api. Però il suo nome lo deve alle singolari foglie ovali, macchiettate di bianco, che dovevano aver stuzzicato, nella fantasia degli antichi, l'analogia con un polmone malato, da cui il nome del genere. In effetti la pianta, essendo ricca di mucillagini, ha un'azione emolliente ed espettorante la cui utilità è stata comprovata modernamente. Nella medicina popolare delle nostre valli si usavano foglie e fiori in tisana, mentre le foglie giovani rientravano tra gli ingredienti che arricchivano le gustose minestre primaverili.

Spostandoci dai boschi ai greti dei torrenti, un'altra graziosa piantina dai fiori gialli rivela anch'essa il suo impiego popolare dal nome. Il suo bel fiore giallo caldo e intenso è tra i primi a spuntare, appena si scioglie la neve. Si tratta della farfara, o tussilagine (Tussilago farfara L., famiglia Asteracee), impiegata in decotto proprio per la tosse e altre infiammazioni delle prime vie aeree, in suffumigi per la pertosse, anche se bisogna evidenziare che l'uso interno di tale pianta è oggi assolutamente sconsigliabile per la presenza di alcaloidi pirrolizidinici, tossici per il fegato.

Il nome generico (Tussilago) d'altronde, deriva dal latino tussis ed agere (= "tosse" e "fare" o "togliere"), quindi traducendo liberamente "far togliere la tosse". Durante l'ultima guerra, con le foglie disseccate si confezionavano persino delle sigarette antiasmatiche, consumate da molti incalliti fumatori. L'epiteto specifico (farfara) è ripreso dall'antico nome latino utilizzato presso i romani: farfarum. Questo termine potrebbe derivare da farfer (= portatore di farina) e probabilmente si riferisce al tomento o peluria bianca della pianta. Pianta apprezzata anche per la cura della pelle: con le foglie infatti si facevano anche cataplasmi in caso di ascessi, piaghe, scottature e distorsioni e persino per la bellezza.

Le nostre nonne, non avendo a disposizione costose creme, si contentavano di applicare il decotto delle foglie sul viso o sul collo per distendere le rughe. Con i fiori freschi e lo zucchero invece, si otteneva un gradevole sciroppo per la tosse, apprezzato soprattutto dai bambini, talvolta assieme alle "violette di montagna", anch'esse conosciutissimo presidio naturale proprio per questo fastidioso disturbo.

Si raccoglievano indistintamente varie specie di viole spontanee di alta quota, in particolare Viola tricolor e Viola calcarata L., (famiglia Violacee) per tutti i problemi da raffreddamento. Per rimediare alla stanchezza primaverile e "purificare" il fegato, i nostri nonni avevano un altro asso nella manica: l'epatica o fegatella (Hepatica nobilis, famiglia Ranuncolacee), altra specie comune dei nostri boschi, le cui foglie trilobate, e con la pagina inferiore dal colore rosso vino, si riteneva somigliassero, appunto, ai lobi del fegato. Le foglie venivano bollite nel vino per le "ostruzioni del fegato e della milza", ma l'impiego medicinale è ormai desueto a causa di una certa tossicità, per la presenza di varie saponine e di un alcaloide tossico per l'uomo, la protoanemonina.

Il suo interesse comunque, sta nel fatto che non solo compariva nella tisana, ma anche negli affreschi medievali. Un altro dei suoi nomi volgari infatti, "erba trinità", è dovuto proprio al fatto che le foglie trilobate erano state assunte a simbolo del mistero della Santissima Trinità, uno dei dogmi cristiano-cattolici relativi alla natura di Dio. Dal passato, ancora una volta, emerge così una visione animistica della natura; approcci arcani, nei quali i "segni" assumevano il valore di una corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, tra Universo e Uomo.

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