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Fatto in casa,grazie

  • Bruno Gambarotta
  • ottobre 2010
  • Giovedì, 2 Settembre 2010

Nelle guide gastronomiche una definizione ritorna di scheda in scheda con allarmante frequenza, per rispondere al bisogno di tracciare con poche ed efficaci frasi il profilo di un ristorante: "cucina tradizionale rivisitata". È quel "rivisitata" che mette i brividi. Manda un messaggio: noi siamo i custodi incorruttibili della tradizione in cucina però siamo anche consapevoli che la cucina piemontese come si praticava nel passato non è più tollerabile dagli stomaci contemporanei. In pratica il pudibondo "rivisitata" sta per "alleggerita". Di un ingrediente soprattutto, il nemico pubblico numero uno: l'aglio. Là dove l'aglio andrebbe messo in quantità industriale, i "rivisitatori" ne mettono "un nulla" (come si esprimono le ricette quando prescrivono "un nulla di noce moscata"), oppure lo aboliscono del tutto. E poi hanno il coraggio di proporre sul menù: "bagna caoda senza aglio", "pesto senza aglio", oppure un generico "aglio solo su richiesta del cliente". La fedeltà alla tradizione è un peso difficile da reggere, ma deve essere praticata senza scorciatoie, non può essere annacquata; diversamente è meglio lasciar perdere e tuffarsi nel mare dell'innovazione. La tradizione in cucina ha bisogno di intrecciare due fattori: ingredienti poveri e tanto tempo a disposizione. Il tempo necessario alla raccolta delle erbe selvatiche, per rompere i noccioli e i gherigli uno per uno, per pestare nel mortaio (mai nel frullatore!) i semi, i pinoli, le foglie di basilico, lo stoccafisso (ammollato per giorni, fino a sfibrarlo). Nella nostra epoca il tempo è l'ingrediente più prezioso e perciò più caro. Se il tempo necessario per allestire un piatto nel rigoroso rispetto della tradizione non è più donato dalle nonne e dalle zie ma esige una ricompensa, quella portata avrà un costo finale che solo il menù di un ristorante di lusso (tovaglie di fiandra, centrotavola con fiori freschi e candela accesa, quattro bicchieri di cristallo, sei paia di posate) può permettersi. È una palese contraddizione perché la riscoperta del gusto esige un ambiente adeguato. Cioè la cara, vecchia trattoria di una volta, con il titolare che al suono del campanello esce dalla cucina asciugandosi le mani nel grembiule, lavato a ogni cambio di stagione. Si presenta in canottiera perché in cucina fa caldo ma, avvicinandosi al tavolo per prendere la "comanda", afferra un tovagliolo e lo sistema a cavallo dell'avambraccio facendo pendere i due lembi, perché l'ha visto fare in televisione. Con le mani impegnate dal taccuino, dalla biro, dal cestino del pane, quel tovagliolo finisce per essere solo d'impaccio, così il titolare lo afferra e se lo infila sotto l'ascella sudata. Si ricorderà di averlo quando, credendo di scoprire sul vostro bicchiere un'ombra, se lo sfilerà per dargli una veloce ripassata. "Bianco o rosso?", domanda prima ancora di esporre a voce il menù. Sottinteso il vino; "della casa" naturalmente. A ogni piatto dell'elenco segue la precisazione "fatto in casa".
Grande impulso alla scomparsa di questo mondo è arrivato dalle regole che impongono la tracciabilità della filiera relativa al prodotto che arriva sulla nostra tavola, dall'albero genealogico dell'agnello al curriculum di chi l'ha macellato, al profilo psicologico del cuoco, senza trascurare le analisi del mangime che l'ha nutrito. Lo fanno per tutelare la nostra salute e hanno ragione. Ma chi tutela la nostra memoria? È stato dimostrato che la memoria del cibo si fissa già nei primi mesi di vita; noi siamo stati fortunati, abbiamo avuto madri e nonne che "perdevano tempo a cucinare" per noi anziché ingozzarci di omogeneizzati e formaggini molli e insipidi. Così ora andiamo alla ricerca di chi sia in grado di farci ritrovare quei sapori, senza discutere sul prezzo. C'è qualcuno in grado di preparami le castagne bianche cotte nel riso e latte? O il sanguinaccio con cipolle, cacao e uvetta? O i ritagli della sfoglia degli agnolotti abbrustoliti sulla stufa?