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Gli animali hanno diritti se sono invasivi?

Per salvare lo scoiattolo rosso è necessario decimare quello grigio? E' possibile conciliare il diritto alla vita degli animali con la protezione di specie indigene minacciate da quelle esotiche invasive? Secondo il Garante dei diritti degli animali della Regione Piemonte è così. 

  • Alessandro Paolini
  • Luglio 2019
  • Giovedì, 11 Luglio 2019
  • Stampa
Gli animali hanno diritti se sono invasivi?

Esistono diversi modi di pensare sul tema della salvaguardia animale, apparentemente inconciliabili tra loro. Ne abbiamo parlato con Enrico Moriconi, garante dei diritti degli animali della Regione Piemonte, tra l'altro l'unica in Italia a essersi dotata di questa importante autorità di tutela e protezione.

Dottor Moriconi, quali sono le posizioni in campo?

Per semplificare, si può distinguere fra l'animalista (anche definito antispecista) cui interessa salvare il singolo animale (a prescindere dal fatto che appartenga o meno a una specie alloctona invasiva) e l'ambientalista che si preoccupa di tutelare le specie minacciate, se necessario anche con interventi diretti a limitare quelle invasive. Si tratta di posizioni contrapposte, polarizzatesi in Italia in modo netto da una ventina d'anni con l'arrivo dello scoiattolo grigio americano (Sciurus carolinensis) che le associazioni animaliste voleva tutelare e che invece organizzazioni autorevoli, come il WWF, avrebbero voluto contenere.

Quali sono le cause dell'invasività di determinate specie?

Nella storia gli animali si sono sempre spostati sul territorio e, fra le cause di tali esodi, vi è quasi sempre il comportamento umano, volontario o meno. Negli ultimi decenni il cambiamento climatico, anch'esso innescato dall'uomo, ha finito per estremizzare determinati processi in atto. Pensiamo alle circa 700 specie tropicali di pesci lessepsiani (da Ferdinand de Lesseps, promotore ed esecutore del Canale di Suez) che hanno invaso il Mediterraneo a partire dal Mar Rosso, in seguito all'apertura del collegamento nel 1869, un effetto ampliatosi a causa del riscaldamento globale che ha permesso alle stesse di proliferare in acque sempre più calde.
Lo stesso ragionamento si può fare per lo scoiattolo grigio, la nutria, la testuggine palustre americana (Trachemys scripta), oggi così diffusa nel Lago di Viverone fino ad arrivare alla zanzara tigre (Aedes Albopictus) arrivata da noi con l'importazione di pneumatici usati e piante tropicali, ma il discorso è valido non soltanto per gli animali ma anche per molte varietà vegetali: pensiamo alla crescente diffusione di piante come la vite in Paesi del Nord Europa, quali l'Inghilterra.
Tra i fattori di questi cambiamenti epocali, molti non vengono spesso sottolineati: la crescente antropizzazione, l'adozione di determinate tecniche colturali o commerciali, e così via. Le crescenti minacce di estinzione di varie specie animali sono dunque da ascrivere più al comportamento dell'uomo che agli spostamenti degli animali sulla terra. La biodiversità è minacciata nel suo complesso e l'attenzione posta soltanto su alcune specie a rischio può essere in parte fuorviante rispetto al problema generale.
Se invece vogliamo fare un esempio virtuoso, in Val Pellice sono tornate in gran quantità le lucciole, soprattutto perché le tradizionali coltivazioni di melo sono state sostituite negli ultimi anni con altre colture a minor utilizzo di pesticidi.

Quali i possibili rimedi?

Tra i rimedi che possono essere messi in campo, oltre alle misure di contrasto delle specie invasive alloctone, vi sono strategie per favorire quelle autoctone come, ad esempio, la coltivazione di vegetali a queste ultime gradite dal punto di vista alimentare.

Si può contrastare l'eccessiva diffusione di una specie in modo incruento?

Certamente. Al di là delle motivazioni "buoniste" ci sono ragioni pratiche. Gli interventi di riduzione numerica di determinate specie attraverso l'uccisione di un certo numero di esemplari, provocano sempre uno "scompaginamento" dei gruppi sociali sul territorio, con la conseguente dispersione di animali e una colonizzazione più ampia e disordinata di nuove aree. Pensiamo all'inefficacia di alcune campagne di riduzione dei cinghiali e alla loro crescente diffusione, anche in contesti a loro alieni come le aree urbane. Le misure di contenimento non cruente hanno invece il vantaggio di conservare i gruppi e limitarne la diffusione e l'invasività.

Quali esperienze sono state fatte al proposito?

Negli Stati Uniti sono allo studio e in sperimentazione vaccini non ormonali per i cinghiali che ne limitano la capacità riproduttiva inibendo la maturazione degli ovuli nelle femmine e che possono essere assunti nel mangime. In Australia è allo studio una "pillola" per i canguri femmina. A Torino, quest'inverno, ho personalmente collaborato a un progetto dell'Università degli Studi, realizzato in collaborazione fra la Città Metropolitana e il CANC (Centro Animali Non Convenzionali), grazie al quale abbiamo potuto effettuare un intervento pilota in endoscopia su una nutria, con il risultato di inibire la sua capacità riproduttiva, lasciando intatto il suo comportamento sessuale ed etologico dell'animale.

Quali sono le criticità di questo approccio?

La principale obiezione che viene mossa a queste tecniche di limitazione di riproduzione è relativa ai costi. Occorre però tenerne conto dei costi e benefici. La caccia come strumento di riduzione e controllo dei grandi numeri è sicuramente più economica, ma nel lungo periodo può risultare inefficace o non risolutiva, lo dimostra l'esempio dei cinghiali. Il contenimento con sistemi incruenti è invece un "investimento" più costoso nel breve periodo, ma con effetti più duraturi nel lungo.
Occorre poi fare un'unteriore riflessione: occorrerebbe limitare l'allevamento e il commercio di specie, soprattutto quelle esotiche che, se rilasciate in natura, possono adattarsi al nostro habitat, proliferare e diventare invasive. Non si pensi solo alla testuggine palustre americana o allo scoiattolo grigio, ma a qualsiasi tipo di animale esotico: ad esempio, a quelli allevati a fini alimentari come gli struzzi o i tacchini o, ancora, a specie che pur non essendo alloctone sono state reintrodotte in alcune realtà, ma senza usare cautela, come il caso dei caprioli.

Per saperne di più

Chi è il garante dei diritti degli animali

E' un'autorità prevista da una legge regionale del 2010 ("Norme per la detenzione, l'allevamento, il commercio di animali esotici e istituzione del garante per i diritti degli animali") che però ha trovato effettiva attuazione solo nel 2017, con la nomina dell'attuale garante: si tratta di Enrico Moriconi, 69 anni, medico veterinario e già consigliere regionale per due legislature. Autore di numerose pubblicazioni e libri, è stato tra l'altro perito ufficiale nel celebre processo Green Hill che portò alla condanna dei titolari di un allevamento in provincia di Brescia per i maltrattamenti e addirittura le uccisioni perpetrati nei confronti di cani beagle.

Quali sono le sua attività

Il garante segue principalmente due filoni: da un lato svolge un ruolo di supporto e verifica dell'attività delle amministrazioni pubbliche mentre, dall'altro, può intervenire direttamente a favore degli animali. Per esemplificare: nel primo caso può farsi promotore di interventi legislativi o di iniziative e progetti che, a vario titolo, tendano a migliorare le condizioni di vita degli animali. Rientrano invece nel secondo filone le azioni intraprese in seguito a segnalazioni e reclami ricevuti direttamente dai cittadini. In questo caso, laddove ravvisi azioni configurabili come reati contro gli animali, il garante può denunciarli o almeno segnalarli agli organi giudiziari. La gamma di azioni messe in campo, quindi, è piuttosto ampia: si passa dalla semplice (ma non per questo meno efficace) moral suasion a iniziative di sensibilizzazione e informazione dell'opinione pubblica fino a interventi diretti con le autorità competenti.

 

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