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Bosco del Gerbasso, una foresta generata da un unico seme

Un unico seme, quello della quercia, e il coinvolgimento delle scuole. Furono questi due elementi a far nascere, a Carmagnola, il bosco del Gerbasso, esempio "didattico" dell'antica e immensa foresta planiziale che un tempo ricopriva tutta la Pianura Padana e che per i curatori del museo di scienze naturali della cittadina resta: "La cosa più bella che abbiamo fatto nella nostra vita".

  • Laura Succi
  • Novembre 2011
  • Lunedì, 9 Settembre 2019
 Foto Pixabay Foto Pixabay

Fu un esperimento dei curatori del Museo di Storia naturale di Carmagnola e avvenne a una trentina di chilometri da Torino, a Carmagnola appunto. Giovanni Boano, direttore del museo, racconta che nel 1987 avviarono una grande attività didattica per far nascere il bosco: "Siamo andati a spiegare a tutti i bambini delle scuole di Carmagnola che volevamo dare una foresta alla città, così li abbiamo reclutati a raccogliere ghiande. Ho ancora le foto che aveva fatto mia moglie quando all'epoca era insegnante". Tre ghiande per ogni buchetto, per essere sicuri: su tre, due se le mangiano i ghiri, gli scoiattoli, i moscardini e una gran massa di altri piccoli animali". Così ne sono nate una, due, tre, mille. Poi è esplosa la foresta.

La città di Carmagnola e l'istituzione del bosco

Il bosco e i terreni sui quali cresce sono di proprietà del Comune di Carmagnola dal 1987 quando la sua amministrazione, raccogliendo le sollecitazioni di cittadini, naturalisti e ambientalisti - in primis l'associazione Pro Natura di Carmagnola - ha deliberato l'istituzione del "Bosco del Gerbasso" con lo scopo di ricreare un ambiente sempre più raro nella Pianura Padana. "All'inizio era un triangolo", chiosa Boano, poi è diventato molto più grande, anche piantando alberi nativi delle nostre zone come il pioppo bianco, l'ontano nero e i salici a ridosso del greto del Po, per evitare che i bordi del fiume venissero illegalmente occupati dalle piantagioni di mais. Oggi è un blocco notevole, occupa oltre 20 ettari, anche se non ha ancora raggiunto il completamento ideale perché un tratto di terreno privato taglia in due il bosco. Un plauso va alle Amministrazioni comunali di Carmagnola che hanno sempre sostenuto questa lodevole iniziativa".

Un grande lavoro

Tutto questo splendore ha comportato un grande e lungo lavoro, forse difficile da immaginare dai non esperti. Giovanni Delmastro, uno dei curatori del museo, racconta: "Io sono un ittiologo, sono dovuto partire da zero, non sapevo la differenza tra una farnia e un faggio, iniziano tutti e due con la effe, ho dovuto informarmi, studiare. All'inizio c'era solo un enorme piatto campo di mais, asettico, un terreno sfruttato da parecchi anni. Partendo da lì abbiamo costruito la catena ecologica del bosco dall'a alla zeta".

"Il bosco è un insieme di alberi ad alto fusto pensano i più, altri includono nella loro visione anche gli arbusti, quelli ancora più osservatori vedono pure le piante erbacee, i muschi e altro ancora, però l'ecosistema è un groviglio vitale molto più complesso di ciò che appare", prosegue Delmastro. "Raccogliemmo al bosco del Merlino saccate di humus e terriccio e tanto, tanto fogliame che conteneva una quantità enorme di bestie microscopiche e piccoli insetti visibili a occhio nudo. Tronchi e legname danneggiati o marcescenti provenienti da interventi sulle alberate cittadine furono portati al Gerbasso: la nostra idea era di aumentare le tane e i rifugi per i piccoli animali e per ricostruire tutta la catena legata alla decomposizione degli alberi".

Nel bosco di Carmagnola vive oggi una solida comunità vegetale fatta di salici e pioppi bianchi sui terreni demaniali soggetti alle esondazioni del Po, di farnie e carpini bianchi, frassini maggiori, ciliegi selvatici, ontani neri, aceri montani e platanoidi e pioppi neri che si levano alti sui grandi cespugli di biancospino, sanguinello, berretta da prete, pallon di maggio, nocciolo.

Grandi ciuffi di bosco sono immersi nelle rigogliose erbacce delle radure dove alle volte le famigliole di caprioli permettono agli uomini di osservarle per poi fuggire rapide nel bosco: "Era una marmaglia d'ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d'avene selvatiche, d'amaranti verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle e d'altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile", a distanza di secoli proprio le stesse "erbacce" del Manzoni nei Promessi sposi.

L'ittiologo che piantava le erbe

L'ittiologo che piantava le erbe, per parafrasare il titolo del racconto di Jean Giono L'uomo che piantava gli alberi (titolo originale: L'homme qui plantait des arbres). E' stata una grande opera di ricostruzione del territorio, precisa Delmastro: "L'ultima fase, quella di cui siamo molto orgogliosi, è la messa a dimora delle piante erbacee, parliamo delle piante dette nemorali (dal latino nemus = bosco), quelle che fioriscono all'inizio della primavera come il mughetto, la polmaria, il campanellino e geranio nodoso. Appena crebbero i primi alberi e le loro foglie ombreggiarono il terreno iniziammo a piantare le piante tenere del sottobosco. Per trasferire le piantine utilizzammo due metodi, quello di prendere tutta la zolla nel periodo della vegetazione: in quel caso trasferimmo pochissimi esemplari ma col vantaggio di trasportare insieme a pianta e zolla moltissimi microrganismi indispensabili all'ecosistema; altre volte raccogliemmo invece piccoli rizomi, per esempio di anemone bianca, una specie che si presta a questo tipo di propagazione: in questo caso la reintroduzione fu più massiccia ma meno efficace da un punto di vista ecologico".

Perché far nascere un bosco? 

Delmastro spiega: "Al bosco siamo molto affezionati. E' un lavoro bello e utile per tanti motivi: è una ricostruzione storico paesaggistica del nostro territorio, concorre alla purificazione e stabilizzazione dell'atmosfera e attirando moltissime specie animali è un eccezionale propulsore per la diversità biologica. Ed è anche tante altre cose: abbiamo visto con i nostri occhi come il bosco trattiene in modo importante l'acqua durante le piene contribuendo all'assetto idraulico del sistema fluviale. Ci sono poi pure delle ragioni alle quali generalmente non si pensa: piantare alberi è un adempimento a un obbligo legislativo, pochi sanno che i comuni sono obbligati a piantare un albero per ogni bambino che nasce. Abbiamo anche una collaborazione istituzionale con i vivai forestali della Regione Piemonte: noi portiamo loro semi e in cambio ci danno piante già cresciute". Una parte del bosco è destinata dal Comune di Carmagnola alla dispersione delle ceneri dei defunti, anche questa funzione deriva da un obbligo di legge.

Per tutti questi motivi, il bosco del Gerbasso è un vero laboratorio vivente. Senza dimenticare l'attività sistematica di inanellamento cominciata (nel 1996) per controllare la ricolonizzazione spontanea da parte degli uccelli, e i risultati sono estremamente favorevoli. La raccolta dei dati sul campo è stata fatta con la tecnica delle catture con mist-nets o "reti-nebbia", facendo attenzione a posizionare l'estremità inferiore della falda molto vicino al suolo perché alcune specie, come gli scriccioli, tendono a fare voli radenti e possono sfuggire alla cattura che termina nel giro di pochi minuti. Così si è saputo che nel bosco ci sono almeno 40 specie di uccelli. Purtroppo, non sono presenti alcune specie tipiche dei querceti come il picchio muratore, la cincia bigia e il rampichino, ed è molto probabile che la causa sia la mancanza di corridoi ecologici per gli spostamenti e la colonizzazione di nuove aree. Delle immense foreste di epoca pre-romana restano infatti solo più alcuni lembi che nei dintorni di Carmagnola si contano sulla punta delle dita di una mano: i boschi lungo il torrente Maira e il bosco-parco del castello di Racconigi, il bosco del Merlino a Caramagna, i parchi Morra e Borgo Cornalese a Villastellone e i boschi di Stupinigi.

Com'era un tempo la Pianura Padana

Il bosco del Gerbasso nacque da un frutto con un unico seme, quello della quercia: la ghianda. Proprio quelle querce, principalmente farnie, che ricoprivano come un morbido mantello smeraldo la Pianura Padana dalle pendici del Monviso fino all'Adriatico, assieme a grandi tigli e olmi. Questa è la descrizione puntuale della farnia tratta dal primo volume della Flora d'Italia di Sandro Pignatti, Edagricole: "Alberi longevi a crescita lenta con foglie di forma caratteristica: obovate ovvero oblanceolate con 4-7 lobi arrotondati per lato. Amenti ♂ penduli 3-5 cm; fiori ♀ in glomeruli avvolti da brevi squame; ghiande generalmente ovali o elissoidali (1-2 x 1.5-3 cm), cupula appiattita o emisferica, ricoprente solo la base della ghianda".

Nei periodi freddi del Quaternario le querce si stringevano attorno al Mediterraneo, dove tuttora vivono una ventina di specie. Ma è pensabile che già circa 5000 anni prima di Cristo si fossero mosse un poco più a nord, spostandosi ai limiti della loro area climatica fino ai luoghi dove le videro gli antichi romani e formando estese foreste: di farnie sui suoli acidi, di roverella su quelli ricchi in calcare e di rovere sui suoli ben drenati dell'alta pianura e delle aree collinari.
In seguito l'uomo si espanse mettendo a coltura le zone prima occupate dai querceti che furono ridotti a piccole popolazioni marginali e, così, le piante furono messe in condizione di scambiare il polline attraverso il vento con individui lontani, anche di specie di querce differenti, subendo un generale processo di ibridazione.

 

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