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Dopo gli incendi, come stanno i nostri boschi?

Gli incendi dei giorni scorsi hanno cambiato le condizioni naturali presenti ma, non necessariamente, hanno lasciato un suolo improduttivo. Perché c'è bosco e bosco

  • Emanuela Celona
  • Novembre 2017
  • Martedì, 7 Novembre 2017
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Dopo gli incendi, come stanno i nostri boschi?
Pascoli bruciati nel Vallone di Bellino (Cn)
Foto V.M.Molinari
Elicottero della Regione Piemonte iin azione anticendio
Foto V.M. Molinari
Una porzione del Bosco dell'Alevè
Foto T. Farina| arc CeDrap
Le Oasi xerotermiche dopo il passaggio del fuoco
Foto arc LIFE Xerograzing
Operazioni di spegnimento nelle Oasi xerotermiche
Foto arc LIFE Xerograzing

Piove, finalmente, sul Piemonte: ma speriamo non intensamente. Gli incendi boschivi divampati di recente nella nostra Regione hanno infatti ridotto la copertura forestale del suolo montano, rendendo più soggetto a erosioni il terreno nelle zone bruciate e più facilmente trasportabili i materiali accumulati.

Dal punto di vista di geologico, la pioggia che cade a seguito degli incendi non è mai una buona notizia - poiché va a incrementare il rischio di smottamenti e lave torrentizie -, però è comunque positivo che sia arrivata: è infatti anche grazie a queste previsioni meteorologiche che la Regione Piemonte - già venerdì scorso, 3 novembre - ha potuto comunicare che i vasti incendi boschivi si avviavano alla conclusione.

Rimane però ancora elevato il grado di allerta e attiva la sorveglianza sul territorio, tanto che tutta la popolazione è invitata a mantenere comportamenti di particolare attenzione e a non tenere comportamenti incauti o scorretti che possano innescare nuovi focolai.

I boschi del Piemonte, del resto, di fuoco ne hanno già visto abbastanza: incendi che, d'improvviso, hanno cambiato pesantemente le condizioni naturali presenti ma che, non necessariamente, hanno lasciato un suolo improduttivo.

Il bosco, dopo il passaggio del fuoco

«Tutto dipende dal tipo di biomassa che è bruciata nel sottobosco, spiega Vincenzo Maria Molinari, dirigente del settore Biodiversità e Aree naturali della Regione Piemonte. La grave situazione di siccità che ha vissuto la nostra regione ha sicuramente reso la biomassa presente molto più esposta al pericolo d'incendio.
Il fuoco, in alcuni ambienti, è infatti un fenomeno a cui la natura riesce a contrapporsi, continua Molinari, e in alcuni casi – come ad esempio nelle zone caratterizzate dalla macchia mediterranea – la vegetazione brucia con maggiore difficoltà: basti pensare al sughero delle querce (Quercus suber L.) dove questo strato esterno è in grado di difendere la pianta dal fuoco radente; oppure al rosmarino, che tramite la produzione di olii essenziali si protegge dalle scottature. Parliamo di macchia mediterranea non a caso, ovvero di una realtà boschiva in cui si possono verificare, seppur molto di rado, fenomeni di autocombustione, cioè nel bosco si possono verificare incendi non causati dall'uomo».

Quelli scoppiati in Piemonte, però, non sono un fenomeno naturale, né hanno coinvolto una vegetazione in grado di difendersi.
«Sicuramente i boschi travolti dal fuoco nei giorni scorsi avevano raggiunto un livello di necromassa bruciabile importante, dovuto al lungo periodo di siccità che abbiamo attraversato. Se è vero che, in determinati contesti, il fuoco può agire anche da fertilizzante quando è radente - pensiamo alla pratica del debbio, vecchia come l'uomo - non vale lo stesso discorso se passa in chioma, dove distrugge completamente la pianta. Inoltre, dove i focolai sono rimasti attivi per più giorni anche solo nel sottobosco, con più picchi di ripresa, è presumibile pensare che ci siano stati dei danni. Il fuoco potrebbe essere andato in profondità e aver interessato gli apparati radicali delle piante, soprattutto in zone montante come le nostre, in cui spesso pini cembri, larici, abeti e faggi sviluppano apparati radicali importanti ma superficiali, dato il terreno di matrice pietrosa», spiega il forestale.

Salvo il Bosco dell'Alevè

Solo con la prossima primavera, osservando la ripresa vegetativa dei boschi, si potrà fare una stima dei danni. Danni che, fortunatamente, hanno risparmiato il Bosco dell'Alevè - la più grande foresta di Pino Cembro (Pinus cembra) d'Italia e una delle più grandi d'Europa, nonché ZSC (Zona Speciali di Conservazione) – nonostante il fuoco sia arrivato fino ai confini del parco. «Tutte le conifere hanno una forte componente resinosa, infiammabile che contribuisce a far divampare incendi che, velocemente, passano in chioma, a maggior ragione in condizioni di vento: un rischio corso ma che, fortunatamente, in Alevè abbiamo scampato grazie a un efficace intervento dei Vigili del Fuoco e delle squadre A.I.B. della Regione», spiega Molinari, che precisa che i boschi coinvolti non erano altrimenti raggiungibili visto il terreno impervio «a conferma del fatto che soltanto l'intervento dei mezzi aerei poteva essere risolutivo, e non la presenza di più piste forestali, come talvolta sostenuto».

Danneggiate le Oasi xerotermiche in Valle di Susa

Se gli incendi ha risparmiato il Bosco dell'Allevè, lo stesso non si può dire per le ZSC (Zona Speciali di Conservazione) Oasi xerotermiche e Rocciamelone della Valle di Susa: qui sono stati risparmiati i sentieri didattici LIFE Xero-grazing ma lecci e ginepri – caratteristici di una vegetazione relitta mediterranea che milleni fa era dominante sul territorio – hanno subìto l'impeto del fuoco ma, attenzione, perché c'è bosco e bosco.

«Negli ultimi 60 anni, le aree un tempo coltivate e pascolate sono state progressivamente invase da quegli alberi e arbusti che tanto facilmente hanno preso fuoco e che con fatica AIB, cittadini e volontari hanno cercato in parte di tagliare per evitare il propagarsi dell'incendio e proteggere case e persone», si legge sulla pagina Facebook del progetto LIFE Xerograzing.
All'indomani dell'incendio, sono molte «le iniziative, più o meno autogestite, volte a incoraggiare il rimboschimento delle due ZSC (Zone Speciali di Conservazione) piantando alberi (spesso a caso) al posto di quelli bruciati. A tal proposito - si legge nel post - vorremmo sia chiaro che a livello ecologico e gestionale occorre distinguere tra soprassuoli forestali bruciati (per intenderci, a esempio, la preziosa pineta del Pampalù) e boscaglie di invasione bruciate (come quelle presenti in abbondanza sui vecchi terrazzamenti). Insomma, quegli stessi alberi che molti ora piangono, sono presenti perché l'uomo ha abbandonato e smesso di gestire il territorio sia dal punto di vista agro-pastorale, sia selvicolturale; rappresentano una delle principali minacce per la biodiversità quando vanno a sostituire gli originari habitat a prateria importanti per la sopravvivenza di molte specie vegetali e animali e hanno giocato un ruolo fondamentale nel determinare la propagazione dell'incendio» che non ha trovato prati e pascoli a interromperne l'avanzata, unito al vento incessante.

Spetterà dunque ai tecnici recuperare i boschi (quelli veri) andati distrutti, mentre ciò che l'uomo non esperto potrebbe fare è assicurare «la continuazione delle attività agro-pastorali e selvicolturali» sebbene siano diverse le variabili che determinano la capacità delle superfici forestali di resistere ai molti fenomeni di disturbo (più o meno naturali) cui sono sottoposte, tra cui gli incendi.

Una di queste è la resilienza dei boschi, ovvero la capacità di ripristinare le condizioni precedenti la perturbazione, in tempi adatti. In linea generale, da un punto di vista della gestione selvicolturale, questa resilienza può essere favorita ripristinando condizioni naturaliformi dei boschi che spesso, nel tempo, viene meno a causa delle necessità dell'uomo che ha reso i boschi più fragili. Il ripristino delle condizioni naturali boschive dovrebbe essere alla base della gestione selvicolturale di oggi per ricreare una maggiore stabilità e una migliore resilienza che non può proteggere dagli incendi, ma sarebbe una buona base da cui ripartire.

Si ringraziano per la consulenza forestale, Luca DeAntonis e Luca Marello, funzionari del settore regionale Biodiversità e Aree Naturali.

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