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Lo spettacolo della natura

La scoperta del nostro pianeta, la creazione di miti, la paura dei disastri ambientali. E ancora: racconto, sfida, viaggio. Da sempre il grande schermo ci mostra il rapporto tra l'uomo e la natura

  • Gianni Volpi
  • giugno 2010
Venerdì, 2 Luglio 2010

Più di qualsiasi altra arte o medium, il cinema ha saputo rendere in senso letterale lo spettacolo della natura. Tra Natura e Cinema si è stabilito, da subito, un rapporto che non aveva bisogno di una coscienza ecologica. Che si trattasse di John Ford o di Robert Flaherty, per citare il più classico dei cineasti di Hollywood o il più rigorista degli indipendenti, il cinema era scoperta del nostro pianeta, spaziava dal Grande Nord alle isole felici dei Mari del Sud, penetrava in territori e foreste vergini. Ed era un cinema che sapeva creare miti e imporre visioni. Diceva un amico che la Monument Valley dei western di Ford è una particella strappata alla geografia dello Utah e proiettata nel cuore delle nostre cineteche immaginarie. Si andava sulle montagne più impervie ed esotiche per trovarvi le radici della spiritualità e della felicità. Le Shangri-la degli anni Trenta hanno trovato incarnazioni più reali ma non meno mistiche nel Tibet buddista visitato da Annaud, Bertolucci, Scorsese, senza contare le ascesi new age nei territori di antiche tribù incas o indiane di certi film di Jodorovskij e Cimino. Nessuno, però, aveva il rispetto per la natura di Flaherty, ossia nessuno sapeva esercitare come lui l'arte dell'attesa. Così, per L'uomo di Aran (1934) si stabilì per oltre due anni in quelle isole al largo dell'Irlanda. Quella di Flaherty è una sorta di messinscena documentaristica di cui sono la vita e la natura a dettargli la "sceneggiatura". Lì ritrova un mondo che è il nostro mondo in forma essenziale. La lotta contro il mare dei pescatori di Aran e quella contro la terra rocciosa dei contadini di Aran sono momenti alti di una scoperta non "rousseauiana" di un mondo e di chi lo abita; quei pescatori e quei contadini ci riportano agli elementi primari della condizione umana. Quelle di Flaherty sono opere definitive, fissano una realtà e un tempo - e, per inciso, in quelle isole L'uomo di Aran è proiettato nei mesi estivi più volte al giorno a uso dei turisti. Restano dei modelli, le cui lezioni sono alla base anche dei grandi documentari naturalistici di oggi, figli nello stesso tempo di un'incredibile evoluzione tecnica degli strumenti di ripresa e di antichi prototipi come Deserto che vive (1953), con la sua celebre danza degli scorpioni. Gli esempi riusciti sono tanti, dalla full immersion etologica di Il popolo degli uccelli migratori (2002) di un Jacques Perrin che segue i suoi "soggetti" lungo tutte le rotte e fiutando tutti i venti, a La marcia dei pinguini (2005), storia d'amore e sopravvivenza del pinguino imperatore, toccante come un mélo di Sirk. E ognuno ci può aggiungere i propri titoli di culto. Tutti, però, con alle spalle lavorazioni che durano anni, tentativi di integrazione in un territorio, escamotages sempre più sofisticati di ripresa nascosta, centinaia di operatori e una gran voglia di racconto o, se si vuole, di fiaba. Si direbbe che la vita segreta degli animali, e animali eccentrici, sia l'ultima frontiera di una lunga fase di scoperta in un pianeta in cui sembra non ci sia più molto da scoprire, ma molto da fare per salvarlo.
Da tempo la visione della Natura, al cinema almeno, è mutata. Scompare il paesaggio, persino il Monte Artesonraju, 6025 metri, nella parte nord del Perù, è scomparso dal logo Paramount, trasformato in segno grafico stilizzato. Resta la Natura come totalità, l'idea della Natura. Il suo luogo deputato, la Grande Foresta, non è più l'Eden primigenio, se mai lo è stato. Per il Coppola di Apocalypse now (1975) vi abita il cuore di tenebra della storia e dell'uomo. Per la Campion di Lezioni di piano (1993), il rapporto con la natura ancora selvaggia della Nuova Zelanda di fine '800 fa corpo con la difficoltà di liberarsi che è di ogni cultura vittoriana e repressiva. C'è nella Campion una moderna visione delle cose al femminile. Il colono e il maori sono espressione di culture opposte: l'una accetta il corpo, l'altra lo nasconde. Ed è con l'arte che le forze amorali della natura si trovano infine in sintonia. Chi, invece, la natura la sfida e in luoghi estremi ne interroga il mistero è Herzog. E lo fa da decenni, dal lontano La Soufrière (1976), in cui aspetta sul posto l'esplosione di un'isola vulcanica, a Grizzly Man (2005), che recupera i materiali filmati dall'amico degli orsi Timothy Treadwell, finito divorato da uno di essi. La morale di Herzog è "titanica", è da prima linea, la Natura è il luogo della conoscenza, e la conoscenza è sempre al di là dei limiti e a rischio della morte. Nella natura si viaggia, come forse non è mai capitato. Il mito naturista che ha nutrito tanta letteratura e cinema e ha retto il destino di tanti trappers, cacciatori e montanari, è ormai marginale anche nel western e nel film d'avventura, ma serpeggia sotto altre forme. Il cinema di oggi è pieno di Daniel Boone post-tecnologici. In uno dei più impressionanti film degli anni Settanta, Un tranquillo weekend di paura di John Boorman, i selvaggi usano il fucile e i civilizzati l'arco. La conclusione di Boorman e dei suoi tanti epigoni è ancora quella di Thoreau in Walden: «La natura è qualcosa di selvaggio e terribile benché bellissima; è Materia, vasta e terrificante, non la Terra Madre». Ancor più, allora, la Natura è il luogo in cui l'uomo misura se stesso. E non è un buon rifugio per i sogni, per le utopie, beat e hippie, on the road e di frontiera, come sperimenta il protagonista di Into the wild (2007) di Sean Penn che cerca «più avventura e libertà di quanto la società odierna non offra». Eppure la sua sconfitta e morte nel gelo dell'Alaska ha qualcosa di nobile, la sua fuga dalla società affluente è assurda e morale a un tempo. Il mito della wilderness è così profondo nella memoria collettiva americana, che non poteva che riaffiorare di continuo nella magia del cinema. E il De Niro di Il cacciatore dove va, prima e dopo il Vietnam, a cercare il senso dell'essere uomini se non nella caccia in alta montagna, nella sfida ad armi pari (a un solo colpo) con l'animale? E che altro se non un mito di naturalità, seppure da paradiso californiano, c'è dietro la mistica del surf come l'ha filmato il John Milius di Un mercoledì da leoni, film di attesa hemingwayana della grande prova, della grande ondata, del momento della verità in cui l'uomo sfida se stesso? Era stata la vecchia fantascienza a dare corpo alle paure di disastro ambientale. La natura si ribellava in tanti film all'intervento violentatore dell'uomo e della scienza. Era un discorso che veniva da lontano, cui aveva dato nuovo vigore la paura atomica, produttrice dopo Hiroshima di tanti mutanti, mostri, animali abnormi, magari risvegliati dalla notte dei tempi. Dopo Gli uccelli di Hitchcock, a più riprese sono comparsi animali in rivolta: formiche, api, pirana (il crudele Piraña di Joe Dante, 1979), squali (Lo squalo di Spielberg, 1974) che, in un piccolo film (Jaws 3D, 1983) scritto da Richard Matheson, sono ormai relegati in un lunapark, spettacolo turistico che all'improvviso diventa terrorizzante. Poi la natura scompare definitivamente dal nostro futuro. Quel piccolo capolavoro di apocalisse realistica che è 2022: i sopravvissuti (1973) di Richard Fleischer, affronta il tema della morte ecologica, uno degli spettri del futuro. La New York del 2022 è il décor di un disfacimento. Una città paurosamente inquinata dove le uniche piante sopravvivono sotto una minuscola tenda a ossigeno "visitata" dalle scolaresche. Un mondo invivibile. I vecchi come il protagonista (il grande Edward G. Robinson, alla sua ultima interpretazione) vengono invitati a una sorta di eutanasia, cullata da immagini della natura del passato e dalle note della Pastorale di Beethoven. Il domani di cui 2022 ci parla è la proiezione di tutte le nostre paure.
A rovesciare il discorso, a produrre curiosi anticorpi ci pensa il genere oggi più vitale, la fantasy, che agisce su terreni contigui alla fantascienza, ne contamina le fantasie, ma prospetta degli extraterrestri buoni cui delega ogni ansia di liberazione. Dallo spazio non giunge un nemico, ma un amico, venuto da lontano a portare un messaggio di amore e di pace. C'è in questa visione una venatura mistica, di ricomposizione cosmica. C'era nei film di Spielberg (Incontri ravvicinati del terzo tipo e E.T.). C'è nell'ultimo e più clamoroso prototipo, Avatar (2009) di James Cameron, che stratifica modernità e mito, selvaggio West e incontaminato pianeta Pandora, terrestri saccheggiatori delle risorse e nativi in simbiosi con la foresta, panteismo new age e ibridazione tecnologica, "salvate l'Amazzonia" e ansia di metamorfosi, Moebius e disneyismi, Apocalypse now e New World, favola e utopia, corpi asessuati e sensualità di immagini, nuove visioni (anche se con fastidiosi occhialini) e vecchi stereotipi. Si chiedeva, uno scrittore, De Cataldo, a proposito di Avatar, se quest'inedita alleanza fra progressismo e misticismo che Hollywood ci presenta, ci salverà dalla catastrofe: «A giudicare dai risultati di Copenaghen si direbbe proprio di no. Ma perché disperare? Dopo tutto, chi l'ha detto che il lieto fine esiste solo al cinema?».
Gianni Volpi, critico cinematografico, è stato direttore della rivista Ombre Rosse, ha diretto festival e realizzato alcune serie per Sky e per la RAI. È autore (con Fofi e Morandini) della Storia del cinema di Garzanti (1988) e di monografie su Amelio, De Seta, Giannini, Lattuada, Fellini. È presidente nazionale dell'AIACE.