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Il Calderone, l’unico dell’Appennino

Nonostante le misurazioni positive degli ultimi due anni, il ghiacciaio del Gran Sasso sembra destinato a scomparire

Anche in Abruzzo, sotto le pietre, c'è un ghiacciaio. Chi è abituato alle Alpi, però, deve allontanare dalla mente le immagini dei seracchi del ghiacciaio del Lys o dei Bossons, o le distese gelate della Mer de Glace o del Miage. Siamo al Gran Sasso, tra i 2650 e i 2870 metri di quota, ai piedi delle quattro vette del Corno Grande, in una piccola conca esposta ai venti freddi del nord. E un ripido pendio di neve e ghiaccio, il Calderone per la gente del posto, è stato considerato come un ghiacciaio fin dall'inizio dell'esplorazione alpinistica del massiccio. Primo a notare la presenza del Calderone, nel 1794, è il giovane gentiluomo teramano Orazio Delfico, ammiratore di Alexander von Humboldt e Horace-Bénédict de Saussure. Delfico compie la prima ascensione al Corno Grande dal versante di Teramo e nota la presenza di "una maestosa conca continuamente coverta di neve". Cinquantuno anni più tardi è lo studioso teramano Raffaele Quartapelle a descrivere "un grande spazio quasi circolare di più moggia di estensione, coverta di duro banco di neve, sotto cui si vede correre un gran ruscello". Anche quadri e fotografie, nell'Ottocento, mostrano un'immagine del Calderone ben diversa da quella odierna. Enrico Abbate, autore e alpinista romano, scrive di "una vedretta solcata orizzontalmente da grandi crepacci". Le poche immagini a corredo della sua Guida al Gran Sasso d'Italia, edita nel 1888 dalla sezione romana del CAI, mostrano che lo strato di neve e ghiaccio si spinge a poche decine di metri dalla Forchetta del Calderone. Testimoni raccontano che verso valle la colata fuoriesce dalla conca, e si spinge su un desolato ghiaione verso il Vallone delle Cornacchie e lo sperone dove oggi sorge il rifugio Franchetti. Degli indizi non certi, come un quadro dipinto da Isola del Gran Sasso, nel 1843, dal famoso paesaggista inglese Edward Lear, suggeriscono che un ramo laterale del Calderone si spinga nel grande canale (l'odierno canale Jannetta) che incide la bastionata del Paretone. Si lega a queste osservazioni non sempre esatte l'errore dei topografi dell'IGM, che nel 1885, nella prima carta in scala 1:50.000 del Gran Sasso, disegnano un inesistente vallone che scende dal Calderone piegando a destra verso il canale Jannetta e il Paretone. Nel 1916 i geografi Marinelli e Ricci verificano per la prima volta scientificamente che quello ai piedi del Corno Grande è un vero e proprio ghiacciaio. Quando l'ingegner Dino Tonini, nel 1961, compie un preciso rilievo della zona, il Calderone è ormai rinchiuso nella sua conca. La superficie è di circa 6 ettari, la pendenza massima di circa 35 gradi. Tra ghiacciaio e morena, all'inizio dell'estate, si forma il piccolo Lago Sofia. Per escursionisti e alpinisti, nei decenni del dopoguerra, quella del Calderone rimane una presenza consueta. Lo si percorre a primavera con gli sci e all'inizio dell'estate con piccozza e ramponi, per poi abbandonarlo quando il ghiaccio scoperto rende le cadute di sassi troppo frequenti. Anche in piena estate, comitive di escursionisti provenienti da ogni parte d'Italia salgono a vedere e a fotografare la colata.
"Nel suo piccolo, il Calderone è una figura importante nella storia della scienza italiana. L'attenzione che ha ricevuto negli anni fa dell'unico ghiacciaio del Gran Sasso e dell'Appennino, il numero 1004 dell'elenco ufficiale italiano, un soggetto quasi unico negli annali della glaciologia. I dati che ho raccolto dai primi anni Novanta sono stati citati in tutto il mondo, e vengono registrati dal World Glacier Monitoring Service" spiega Massimo Pecci, glaciologo dell'Ente Italiano per la Montagna, che segue con passione da vent'anni quel fazzoletto di ghiaccio. Basta una breve indagine su Internet per scoprire che le ricerche compiute da Massimo Pecci insieme ai colleghi Maurizio D'Orefice, Claudio Smiraglia e Renato Ventura vengono citate anche negli Stati Uniti, in Nuova Zelanda e in Giappone. Fino a oggi il Calderone ha potuto sopravvivere grazie all'esposizione a settentrione, alla profondità del circo che lo ospita, ai venti umidi che soffiano dall'Adriatico e che permettono un grande accumulo di neve. Anche queste condizioni, però, si stanno rivelando insufficienti di fronte all'innalzamento delle temperature. Come molti suoi piccoli simili sulle Alpi Marittime, sulle Dolomiti e sui Pirenei, per non parlare del Kilimanjaro e del Monte Kenya, il Calderone sembra destinato a scomparire. Il primo allarme arriva nella torrida estate del 1990, che vede anche il prosciugamento del Lago di Pilato sui non lontani Monti Sibillini. A settembre, ai piedi delle vette del Corno Grande, si vedono solo pietraie. Televisioni e giornali danno il Calderone per estinto. Basta un controllo dei glaciologi, invece, per scoprire che il ghiaccio si è nascosto sotto uno spesso strato di sassi. Tra il 1994 e il 1997, degli inverni eccezionalmente nevosi permettono alla massa glaciale di accrescersi un po'. Poi riprende il declino. Nell'estate del 1999, per la prima volta, il ghiacciaio si divide in due parti separate da una fascia rocciosa. Nel 2004, un altro inverno di grandi nevicate permette ai ricercatori Massimo Pecci e Pinuccio D'Aquila di registrare per il Calderone un bilancio di massa positivo. Ma la tendenza è un'altra. La geologia del Gran Sasso appare sulle prime pagine di tutta Italia nell'agosto del 2006, quando una gigantesca frana si stacca dal "Paretone", la muraglia di 1600 metri di altezza con la quale il Corno Grande si affaccia sulle colline di Isola del Gran Sasso e Castelli. La roccia percorre a velocità terrificante la parete, poi si schianta 1200 metri più in basso. Siamo sul versante opposto della montagna, ma a poche centinaia di metri in linea d'aria dal Calderone. Anche sul Gran Sasso, come sulle Cinque Torri o sul Dru, la riduzione del permafrost, lo strato perennemente ghiacciato che cementa rocce e morene, sembra aver reso i crolli più frequenti. Alla fine dell'estate del 2006, come nella successiva, il Calderone sembra aver raggiunto il minimo storico. A settembre, Massimo Pecci e i suoi colleghi si aggirano su una ripida e desolata distesa di pietre. Il ghiaccio c'è ancora, ma è nascosto sotto le pietre. Nel 2008 la situazione è stazionaria. Nel 2009, invece, la combinazione tra un inverno molto nevoso e un'estate freddina fa sì che, alla fine di settembre, la conca sia ancora piena di neve, e il bilancio di massa misurato dai glaciologi sia positivo per la prima volta dopo anni. E anche quest'anno il Calderone sembra essere cresciuto un po'. Certo, due anni in controtendenza non permettono troppe illusioni, e Massimo Pecci lo sa bene. "Ormai, a voler essere formali, non si potrebbe parlare più di un vero e proprio ghiacciaio. Per la glaciologia ufficiale si può usare questo termine solo per colate unitarie, con una superficie di almeno 5 ettari. Invece il Calderone è diviso in due parti, e l'estensione totale non supera i 4 ettari" racconta. "Un po' di ghiaccio resterà sempre tra le rocce, ma nemmeno noi che gli siamo affezionati potremo parlare di un vero e proprio ghiacciaio. È interessante notare che, quando il Calderone diventerà un glacionevato, cioè un deposito perenne di neve e ghiaccio privo della struttura complessa e delle dimensioni di un ghiacciaio, non sarà più l'unico nel suo genere sull'Appennino e sul Gran Sasso. Depositi di questo tipo, infatti, esistono in altre parti del massiccio: per esempio la conca del Fondo della Salsa (a soli 1300 metri di quota!) e il canalone del Gravone. Sarà diverso, ma avremo ancora di che studiare".

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