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Valsusa, un paesaggio disegnato dal ghiaccio

In valle di susa i ghiacciai sono oggi in visibile ritiro, ma l'impronta dell'erosione è ancora evidente lungo tutta la valle della dora, sino alle porte di Torino

  • Gianni Boschis
  • dicembre 2010
  • Giovedì, 2 Dicembre 2010

La Valsusa dei ghiacci? Una terra quasi "didattica". Parola di Federico Sacco, che nel 1938 scrive: «Dal punto di vista glaciologico la Val di Susa è una delle più caratteristiche nelle sue diverse parti (grande Anfiteatro, terrazzature vallive, archi stadiari, arrotondamenti, levigature, striature, ecc.) in modo da risultarne una valle quasi didattica; tanto più per la comodità di accesso da Torino, in modo da poterne fare facilmente l'esame dalle morene più antiche su su, attraverso gli archi stadiari, sino agli ultimi alti circhi alpini...» (1). Nell'affrontare il tema del glacialismo in Valle di Susa sento l'obbligo di onorare la memoria del geologo Federico Sacco per il grande contributo da lui dato allo studio dei ghiacciai alpini, tante volte osservati dalle aule del Valentino (allora sede del Regio Politecnico di Torino) e, immagino, innumerevoli volte descritti con passione ai propri studenti di Geologia. Per contro, la Valle di Susa non è l'area più adatta a un discorso sul glacialismo da almeno 10mila anni circa (sul finire del Pleistocene), quando a sentire proprio Sacco, il suo ghiacciaio «aveva ancora una lunghezza di 32 chilometri, con un'ampiezza di oltre un chilometro, posando allora la sua fronte terminale sul piano di Salbertrand». Eppure, nonostante il precoce ritiro, il ghiacciaio ha lasciato un'impronta indelebile nel paesaggio della Valle di Susa e della pianura sino alle porte dell'area torinese, il cosiddetto "grande Anfiteatro" di Sacco, esteso fra Avigliana e Rivoli, ma con propaggini che raggiungono Druento, Pianezza e Rivalta. Alla metà dell'Ottocento, sono proprio le colline sviluppate a semicerchio (ecco svelata la ragione del nome "anfiteatro") allo sbocco vallivo a suscitare l'interesse dei primi geologi (meglio sarebbe dire "ingegneri minerari", dal momento che la laurea in geologia non esisteva ancora). In particolare incuriosiva la presenza, apparentemente inspiegabile, di ingombranti massi disseminati fra le morene e la pianura. Per secoli oggetto di fantasiose leggende e culti esoterici, i massi erratici diedero origine a un'accesa disputa scientifica fra due visioni contrapposte. Da un lato la visione "catastrofista" che riteneva il paesaggio frutto di fenomeni sconvolgenti, ben diversi da quelli che dominano oggi il modellamento terrestre; dall'altro la visione "attualista" che sosteneva la continuità e l'analogia fra i processi di modellamento odierni e passati. Assertore dell'"Attualismo", Bartolomeo Gastaldi, fondatore della glaciologia piemontese, nel 1849 interpreta per la prima volta le colline di Rivoli-Avigliana non come la prova di un antico e catastrofico "diluvio", ma come il risultato della deposizione di materiale trasportato da un antico ghiacciaio. Ecco svelata l'origine di massi che portano ancora oggi nomi misteriosi come Pera Luvera, Pera d'la Vulp, Pera di Masc; in seguito fu il CAI a intitolare il ciclopico roccione di Pianezza in onore dell'insigne glacialista, Masso Gastaldi, appunto. L'anfiteatro morenico è composto da diverse cerchie di depositi prodotte da altrettante oscillazioni del ghiacciaio, risultato delle cicliche variazioni nel clima delle nostre regioni. A seconda l'assestarsi di condizioni climatiche più fredde e nevose (periodi glaciali) o di fasi climatiche più calde (periodi interglaciali), i ghiacciai alpini avanzavano o regredivano di volta in volta rimodellando le colline moreniche. Le cerchie moreniche più evidenti sono sostanzialmente ascrivibili a due glaciazioni avvenute rispettivamente fra 750mila e 135mila anni fa (Pleistocene medio) e fra 135mila e 10mila anni fa (Pleistocene superiore) (2). Le colline più esterne e antiche sono contraddistinte da rilievi meno accentuati, da depositi con un grado d'alterazione maggiore e da suoli più ossidati rispetto alle cerchie moreniche più interne e recenti: ciò in relazione alla maggiore durata dell'esposizione agli agenti atmosferici subita dalle cerchie più antiche. Una singolarità del grande complesso morenico valsusino è la biforcazione del ghiacciaio allo sbocco nella pianura nel corso dell'ultima glaciazione: mentre il ramo principale defluiva verso Rivoli, un ramo secondario deviava verso Trana, dando origine, successivamente al ritiro, alle conche lacustri di Avigliana.
Ma che fine ha fatto il lungo e grande fiume di ghiaccio capace di trascinare con sé per tanti chilometri grandi macigni e milioni di tonnellate di detriti al punto da formare intere colline? Del ghiacciaio valsusino non restano oggi che modestissimi lembi confinati alle quote più elevate, soprattutto fra il Moncenisio e il Vallone di Rochemolles; sul versante francese, grazie all'esposizione settentrionale, risultano un po' più estesi, come a ridosso della cima del Rocciamelone o nell'alto Vallone d'Ambin. Eppure anche qui il ghiaccio soffre scongelandosi e le fronti glaciali indietreggiano al ritmo di alcuni metri l'anno. Il Ghiacciaio del Rocciamelone, considerevolmente regredito, ha così svelato la presenza di un lago effimero che nei primi anni del 2000, per le ragguardevoli dimensioni assunte, aveva destato qualche timore di alluvioni. Gli altri ghiacciai si spengono forse con meno clamore, ma in modo altrettanto impressionante: quelli del Galambra, dell'Agnello, di Bard e del Lamet, già ridotti a modesti lembi nel corso dell'era pre-industriale, sono ormai scomparsi o prossimi all'estinzione. Chi si aggira nei dintorni del Massiccio d'Ambin, per esempio, rischia di scambiarli per modesti nevai, un'ombra rispetto al loro antico candore. La progressiva risalita verso l'alto del limite delle nevi perenni, accelerata in alcuni casi dall'esposizione diretta ai raggi solari, intacca la "provvista" di ghiaccio degli strati più antichi, più grigi per densità e impurità detritiche: è questo colore il segno evidente di un cattivo stato di salute, se non addirittura di uno stadio terminale. È il caso del Ghiacciaio di Galambra il cui bianco paesaggio, nel breve volgere di mezzo secolo, ha lasciato spazio a un'arida e pietrosa conca. Che dire poi del Ghiacciaio di Bard, ai primi del '900 ancora al centro di un florido commercio del ghiaccio, estratto e venduto come conservante alimentare? Certamente, in questo caso, anche gli uomini sono stati motivo del suo declino (3). Non meno sorprendente il ritiro del Ghiacciaio dell'Agnello, il cui antico e massiccio aspetto (in estensione e spessore) era reso ancora più severo da una serie di pericolosi crepacci, uno dei quali fatale – il 25 giugno 1860 – a un ingegnere del catasto salito fin lassù per alcuni rilievi. Scrivono Alessandro Martelli e Luigi Vaccarone: «Sdegnando i consigli della guida Aschieris di legarsi alla fune, una fenditura mascherata si aperse sotto i suoi passi ed egli, precipitando per parecchi metri, si trovò immerso nell'acqua ghiacciata che scorreva in fondo al crepaccio; non si perdette d'animo, ed aggrappandosi alle pareti di ghiaccio con tutti i mezzi che gli consigliava il caso disperato, riuscì a tenersi sollevato sull'acqua. Aschieris non avendo modo alcuno di porgergli aiuto lo lasciò ai conforti di un amico che li seguiva, per correre al Colle Clapier, dove trovavansi corde e uomini. Quando ritornò era troppo tardi, le membra intirizzite dal freddo non avevano potuto sostenere il corpo al di sopra dell'acqua e l'infelice Tonini periva nella corrente micidiale!» (4). Il glacialismo valsusino evoca ricordi anche sportivi. Quand'ero ragazzo il Ghiacciaio del Sommeiller era una piccola mecca dello sci estivo, piccolo santuario per comitive di assetati "skiatori" in crisi di astinenza, disposti alle scomodità di una strada sconnessa sempre sull'orlo di precipizi, pur di avere qualche curva sulle nevi e i ghiacci d'agosto. Se i ghiacciai sono ormai poca cosa rispetto alle origini, l'impronta del loro passaggio è tuttavia ancora evidentissima lungo tutta la Valsusa: a partire dal già citato Anfiteatro di Rivoli-Avigliana, i fianchi vallivi (che si raccordano con il classico profilo a "U") sono cosparsi da frequenti depositi morenici qua e là interessati da curiose sculture di erosione, come le piramidi di terra del Pian delle Rovine o il solitario Ciuquet d'Magrit nel Vallone del Prebec. Le superfici rocciose sono modellate con forme addolcite, levigate e striate dalla forza abrasiva dei ghiacci: per tutte parlano le dorsali rocciose di Condove, Torre del Colle o i fianchi del Pirchiriano, il monte della Sacra di San Michele. Alle quote più elevate i valloni laterali culminano infine in ampi circhi glaciali come nei massicci d'Ambin e Orsiera-Rocciavré, fino alle "sorgenti" ultime dell'antico ghiacciaio valsusino, la Valle Argentera e la Valle Stretta, dall'inconfondibile profilo a "ferro di cavallo", spettacolare eredità dell'ultima grande glaciazione.

 

Il ghiaccio in casa

Oggi che abbiamo il frigorifero in quasi tutte le case ci riesce difficile immaginare quanto problematico fosse il problema della refrigerazione e della conservazione dei cibi sino a pochi decenni fa. Per approvvigionarsi di ghiaccio si ricorreva alle ghiacciaie, alle neviere, e anche dove l'efficienza delle comunicazioni lo permetteva, ai ghiacciai stessi. Così a Salbetrand, dove gli intraprendenti montanari con fatiche inimagginabili salivano con la "lesa" (la slitta di legno) in spalla sino al ghiacciaio del Galambra e caricatela dei blocchi staccati dal ghiacciaio scendevano con il prezioso carico fino alla stazione del paese il più velocemente possibile per non perdere il ghiaccio prima del tempo. Percorso reso difficile dal peso, dalla rudimentalità del mezzo di trasporto e dal terreno accidentato. Basta alzare gli occhi alla bastionata che scende dai Roc Peirous dove transitava la "strada del ghiaccio"per meravigliarsi e farsi un'idea della durezza e della pericolosità di quel lavoro.

AlMo


Le Alpi di Federico Sacco
A dispetto dei 62 anni dalla sua scomparsa, la figura di Sacco è quanto mai viva nel campo della geologia e della cultura scientifica non solo italiana, ma internazionale. Non si tratta della ripetitiva, per quanto dovuta, citazione bibliografica delle sue tante opere, ma dell'ispirazione che costantemente scorre nel lavoro di ricerca e di studio universitario, dell'emozione che è ancora capace di suscitare nel lettore naturalista, nell'appassionato di paleontologia o cartografia, sino a toccare la curiosità dell'astrofilo. Nato a Fossano il 5 febbraio 1864, Federico Sacco vive intensamente più vite professionali che si completano in una cultura umanistica e scientifica insieme: enciclopedica, diremmo. Docente universitario, geologo, naturalista, paleontologo, nei 37 anni d'insegnamento di geologia al Regio Politecnico di Torino, arricchì notevolmente le collezioni didattiche universitarie, tanto che ancora oggi non è raro imbattersi in campioni di roccia con la didascalia scritta di suo pugno. Presidente della Società Geologica Italiana e del Comitato Geologico Italiano, membro del Consiglio Superiore delle Miniere, dell'Accademia dei Lincei e dell'Accademia di Agricoltura di Torino, con riconoscimenti da ogni parte del mondo, nel tempo libero dirigeva e pubblicava a sue spese la rivista astronomica Urania. Sacco pubblicò almeno 600 saggi frutto di campagne di studi e rilevamenti che lo portarono a percorrere a piedi circa 60mila chilometri. Gran parte di questi passi fu compiuta con robusti scarponi di cuoio (chissà quante volte risuolata dal momento che Sacco aveva fama di parsimonioso) su e giù per le Alpi, con una preferenza per le Alpi occidentali, di cui il grande geologo non faceva mistero, come si evince anche dal monumentale libro Le Alpi. L'opera trascende una volta tanto il lato scientifico a favore del lato contemplativo del paesaggio. Egli affronta le Alpi in tutti i loro aspetti, dalla formazione tettonica alla vita di un ghiacciaio, dalle impressionanti gole scavate da impetuosi torrenti alle piramidi di terra, dalle suggestive grotte carsiche all'origine marina delle Dolomiti e del Monviso, terminando con una sempre attuale riflessione sul futuro della catena montuosa. La ristampa anastatica del volume, recentemente curata da Meridiani società scientifica per conto della Regione Piemonte, ne rispetta la forma originaria: 65 articoli corredati di una galleria fotografica ricca di oltre 1000 illustrazioni compendiate in 700 pagine. Sacco morì a Torino il 4 ottobre 1948 all'età di 84 anni: una vita quasi interamente dedicata alle "sue" montagne.


Note
· 1. F. Sacco, Il Glacialismo piemontese, estratto da L'Universo, IGM, 1938.
· 2. Le oscillazioni del ghiacciaio si sono verificate in seguito a una serie di variazioni cicliche nel clima delle nostre regioni. Durante i cicli climatici maggiori la temperatura media annua globale del nostro pianeta può variare di circa 6 gradi centigradi e, nel caso di un raffreddamento del clima, ciò si può tradurre in un'espansione delle masse glaciali.
· 3. In genere il ghiaccio, una volta portato a valle, prendeva la strada di Torino, ma la notizia riportata dalla Rivista Mensile del CAI del 1893 non finisce di stupire: il ghiaccio proveniente dal Ghiacciaio di Bard (fra Susa ed il Moncenisio), nel corso del 1884, veniva regolarmente spedito a Massaua: quanto ne giungesse non è dato sapere, «forse giusto giusto il sorbetto per il generale» (da: G. Garimoldi, Meglio avere alle spalle montagne con ghiacciai, in Mestieri tradizionali fra rocce e dirupi, Museo Nazionale Duca degli Abruzzi di Torino, 1985).
· 4. A. Martelli e L. Vaccarone, Guida delle Alpi Occidentali, vol. 1, Marittime e Cozie, Sezione di Torino del CAI, 1889.

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