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Inferno, Paradiso e ritorno

La millenaria relazione tra uomini e ghiacciai alpini passa per la mitica età dell'oro del Medioevo, la catastrofica avanzata e la rivalutazione estetica del turismo. Oggi, sciogliendo e smagrendo, i ghiacci risvegliano ancestrali paure

  • Enrico Camanni
  • dicembre 2010
  • Giovedì, 2 Dicembre 2010

Prima di essere esplorati, prima di essere scalati, i ghiacciai andavano visti. Oggi non pare vero, ma fino al Settecento i monti, le pareti e i ghiacciai erano "oggetti" quasi del tutto ignorati dall'arte e dalla cultura, perché praticamente inutili ed esteticamente insignificanti. Invisibili, in una parola. I primi curiosi furono gli inglesi. Il viaggiatore William Windham, scapestrato rampollo dei Windham del Norfolk, nell'estate del 1741 si dedicò alla scoperta di nuovi scenari esotici: i ghiacciai. Con l'amico Richard Pococke, aspirante ecclesiatico, mise in piedi una campagna di esplorazione per descrivere le meraviglie del Monte Bianco di Chamonix, che apparteneva al Regno di Savoia, accompagnato dall'ostilità degli indigeni e dal conforto di una bottiglia di acqua e vino. Quando, di ritorno dall'avventura, sedette con carta e penna alla scrivania, Windham si accorse che gli difettavano le parole. Non certo per assuefazione al tema, o per insufficienza di materia prima. Al contrario. Semplicemente non gli riusciva di descrivere una cosa pazzesca, sconosciuta e senza nome – il ghiacciaio –, sia che si presentasse in forma di torrente rappreso come i Bossons, oppure di fiume congelato come la Mer de Glace. Il ghiacciaio, o meglio «la ghiacciaia» (glacière, gletscher per i tedeschi), rappresentava una forma fisica e mentale che sfuggiva a ogni metafora, raffronto, immaginazione. Alla fine, dopo molto pensare, Windham scrisse sui "Proceedings" della Royal Society: «Non c'è nulla tra quanto ho visto finora che abbia con quello la minima somiglianza... La descrizione che i viaggiatori fanno dei mari della Groenlandia è quella che sembra avvicinarsi di più. Bisognerebbe figurarsi la superficie di uno specchio d'acqua agitato da un vento tumultuoso e congelato all'istante...». L'immagine era così azzeccata, anche dal punto di vista scientifico, che il sommo Horace-Bénédicte de Saussure replicò nel 1760: «Sembrava un mare che sia gelato all'improvviso». Poi da naturalista precisò: «Non però nel momento della tempesta, ma quando il vento sia cessato e le onde, benché ancora alte, si siano fatte tondeggianti e smussate». Alla metafora mancava un elemento fondamentale: il movimento. A questo provvide l'interpretazione poetica di Percy Bysshe Shelley, che visitò la Savoia nell'estate del 1816 e ne restò impressionato. Scrisse in una lettera all'amico Thomas Love Peacock: «Scendono senza posa verso valle, distruggendo nel lento ma inarrestabile avanzare i pascoli e le foreste che li circondano... I ghiacciai avanzano sempre, trascinando con sé dalle regioni superiori tutte le macerie delle montagne, e massi immensi, e gigantesche quantità di sabbia e sassi...». Ora l'immagine è completa. I ghiacciai sono i grandi artefici, gli agenti creatori del paesaggio; nei secoli dei secoli hanno scavato le valli, plasmato i versanti, accumulato le morene e imbiancato le altezze, terrorizzando i valligiani e seducendo talvolta i viandanti.
Il Paradiso perduto
«Nei tempi dei tempi – racconta la leggenda del Cervino raccolta da Mary Tibaldi Chiesa nel 1932 –, i monti non erano irti di punte e solcati da crepacci, ma formavano una giogaia uniforme, che abbracciava a semicerchio il fondo della valle, la conca prativa che ora si chiama Breuil. Un'epoca beata, quella, per le valli d'Aosta! Le valli godevano di un clima mitissimo, così che si potevano tenere gli armenti agli alti pascoli, a circa duemila metri d'altezza, fin quasi a Natale. Immense praterie fiorite si stendevano sulle pendici dei monti, i pastori vivevano nella più felice abbondanza. Il latte era in sì gran copia da formare ruscelletti, nei quali gli agnelli si dissetavano. I ragazzi giocavano ai birilli con pallottole di burro, ai dischi con forme di formaggio. Tutti andavano d'amore e d'accordo; il male e l'invidia erano sconosciuti». Ma un brutto giorno l'armonia tra i valligiani e il loro dio è brutalmente annientata dalla stoltezza dei montanari. La lettura antigiudaica attribuisce all'Ebreo Errante il motivo del tradimento: «...ora avvenne che l'Ebreo Errante capitò alla città sul colle eccelso (il Teodulo). I buoni montanari lo accolsero senza diffidenza e gli diedero ospitalità, non sapendo che, con l'opporsi così alla volontà di Dio, si esponevano alla sua terribile vendetta. Infatti, dopo mille anni, l'Ebreo Errante ritornò per la seconda volta sul colle. Avvicinandosi a quei luoghi, un tempo ameni e deliziosi, egli sentì il cuore battere forte nel petto. Una fitta nebbia si levò dinanzi a lui, togliendogli la vista del paesaggio, un brivido di freddo lo raggelò. A un tratto un vento furibondo spazzò l'orizzonte e l'Ebreo contemplò inorridito uno spettacolo di desolazione. Le pendici verdeggianti e i boschi folti erano scomparsi, scomparsa la bella città sul colle. Ovunque deserto e silenzio, rocce dirupate, gelide nevi, ghiacciai minacciosi». Il patto di alleanza tra Dio e i montanari è rotto definitivamente. Alla fine del Medioevo i ghiacci avvolgono i peccatori come le fiamme degli inferi, e li sotterrano con la loro insipienza. Con la Piccola età glaciale di metà millennio, che durerà fino al 1850, prende forma l'idea più negativa delle alte quote e dei ghiacciai alpini, simboli del disordine e della collera divina. Lutero bolla le montagne come un prodotto del peccato, il lascito apocalittico del diluvio universale. L'Eden è diventato l'Inferno. Nel 1673 John Evelyn scrive: «La natura ha spazzato tutte le immondizie della Terra nelle Alpi, allo scopo di spianare e di ripulire la pianura della Lombardia». Gli fa eco il teologo Burnet: «La Terra, se noi la consideriamo nel suo complesso, non è un insieme bello e ordinato, ma una massa confusa di parti accumulate alla rinfusa, senza badare alla bellezza e alla simmetria. Le montagne a che cosa servono? Se si potessero sopprimere, cosa perderebbe la natura se non un peso inutile?». Nel silenzio delle gelide notti senza luna, chi abita gli alpeggi più prossimi ai ghiacciai può udire i lamenti dei morti che chiedono pietà. Sono le anime dannate dei montanari, un tempo ricchi e felici, poi condannati a vagare senza requie nel fondo dei crepacci per espiare le loro colpe. Ancora nel Settecento era voce comune che in qualche recesso del Monte Rosa dovesse trovarsi la valle favolosa, ricca un tempo di campi, fiori e delizie, abbandonata precipitosamente dal popolo walser per l'avanzata dei ghiacciai: la Verlorne Thal, o Valle Perduta. Il mito della Valle era diffuso sia sul versante del Sesia sia su quello del Lys, al punto che sette giovani gressonari si organizzarono per andarla a cercare. Il 15 agosto 1778 essi raggiunsero la Roccia della Scoperta, nei pressi del Colle del Lys, la grande porta del Monte Rosa spalancata sul Vallese. Naturalmente i sette ragazzi di Gressoney non trovarono la valle dei loro padri, ma, affacciandosi sul bacino di Zermatt, furono i primi a superare la soglia dei quattromila metri e a infrangere il tabù dei ghiacciai e dell'alta quota. Inconsapevolmente aprirono la via all'alpinismo e al turismo, ben otto anni prima che Paccard e Balmat scalassero il Monte Bianco.
Il regno ritrovato
A questo punto i regni perduti possono essere fisicamente riconquistati. Con scale, corde, piccozze e ramponi. I ghiacciai sono percorsi in lungo e in largo, d'estate e d'inverno, a piedi e con gli sci, e al mistero si sostituiscono la villeggiatura, lo sport, il piacere. L'incognita, l'avventura, perfino la paura, sono i sentimenti valorizzati dalla nuova moda delle vacanze alpine; promettono panorami, sorprese ed emozioni. Nell'Ottocento i ghiacciai della Svizzera e della Savoia, soprattutto le seraccate del Monte Bianco e i plateau gelati del Monte Rosa, diventano l'irresistibile attrattiva di un turismo borghese che ha scoperto il "bello" dove un tempo i montanari vedevano caos e rovina, ha trovato il piacere nei luoghi delle leggende e delle tragedie contadine, ha nobilitato la fatica che i valligiani subivano come un castigo divino. A fine secolo si progetta la "conquista" dei ghiacciai con i treni a cremagliera, abbassando l'alta montagna alla portata di tutti. In pochi anni, con realizzazioni avveniristiche, nascono le ferrovie del Gornergrat sopra il ghiacciaio del Gorner, del Montenvers sopra la Mer de Glace e del Jungfraujoch nel cuore dell'Oberland Bernese, dove il treno si permette di bucare la pancia dell'Eiger, l'Orco. Infine, con il Novecento e l'industria del turismo di massa, la fatica residua viene cancellata dalle funivie e i ghiacciai diventano sfondo di lievi giochi sulla neve. Si scia anche a luglio sui ghiacciai del Sommeiller, del Gigante, del Teodulo e di Punta Indren, ma è come se si scivolasse su una superficie sintetica, in ambiente domestico e attrezzato. A dar retta alla pubblicità dello sci estivo i crepacci non ci sono più, il vento non c'è più, anche il freddo è stato sconfitto. Sembra più un limbo che un paradiso.
Le paure contemporanee
E poi siamo approdati a un altro tempo ancora: lo scioglimento dei ghiacci. L'attuale stato di arretramento dei ghiacciai alpini non è così diverso da quello che, nel Medioevo, vide il popolo walser superare i colli del Monte Rosa e insediarsi sopra i duemila metri, ma nel frattempo è cambiato tutto: i ghiacciai spariscono a velocità mai vista, complici i gas serra e il riscaldamento globale, mentre quelle nevi che per i montanari dei secoli passati erano un castigo divino, ora sono l'oro bianco del turismo invernale, grazie all'invenzione dello sci, e costituiscono uno sfondo insostituibile
per quello estivo. Si sono invertiti i valori estetici ed economici, al punto che l'innalzamento della quota dei ghiacciai, non più sinonimo di Paradiso, somiglia piuttosto a un nuovo ammonimento divino, perché compromette le certezze del turismo e rischia soprattutto di privare fiumi, campagne, uomini, piante e animali dell'elemento più vitale: l'acqua. Anche la paura ha cambiato volto.

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