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L’ultima frontiera dell’esplorazione

Dai cultori isolati dell’Ottocento all’attività associata degli speleologi del Novecento: piccolo viaggio nel mondo della conoscenza sotterranea tra cultura scientifica, progresso tecnico e provincialismi. E se il Piemonte guarda con orgoglio le sue 2200 grotte catastate, fra gli speleologi incombe il rischio di un insufficiente ricambio con forze giovani

  • Marziano di Maio
  • dicembre 2009
  • Mercoledì, 30 Dicembre 2009

Per redigere la storia non vissuta da noi, è giocoforza attingere da fonti scritte, che ci danno però un quadro parziale. Nel caso della speleologia, essendo le grotte piemontesi ubicate per la quasi totalità in montagna, va intanto notato che i primi a spingersi per curiosità o per fini utilitaristici nelle grotte accessibili sono stati quasi sempre i montanari, che disdegnando carta e penne non hanno lasciato memoria delle loro esplorazioni. Sono state poi persone colte a scrivere informazioni avute dalla gente o notizie di prima mano frutto di visita diretta, utilizzando perlopiù accompagnatori locali già pratici.
Da questi tasselli piuttosto radi, sappiamo di grotte utilizzate nel ’500 dai Valdesi come rifugio durante le persecuzioni, mentre la bibliografia permane avara per tutto il ’600 (sono citate alcune cavità tra le più evidenti), nonché per il ’700, nonostante il risveglio illuministico (una decina le cavità oggetto di cronaca). E neppure la prima metà dell’800 vede un maggior interesse, essendo soltanto una decina i cronisti che accennano a grotte, magari senza averle visitate ma solo con notizie raccolte presso gli abitanti del luogo che le conoscevano per averle usate come riparo, per provvista d’acqua o di ghiaccio, per ricerche minerarie o di cristalli, concrezioni, marmi.
Nella seconda metà dell’800 anche in Piemonte ha preso piede l’alpinismo, inteso non solo come pratica sportiva ma anche come esplorazione del territorio e come indagine scientifica sull’ambiente alpino. In tale contesto si è diffuso pure l’interesse per il mondo sotterraneo, da parte di cultori isolati di ascendenza alpinistico-scientifica e cioè dotati di sportività e coraggio unitamente a curiosità naturalistica per biologia, mineralogia, geologia, paleontologia, ecc. E’ l’epoca della fondazione del Club Alpino Italiano (1863), della nascita di pubblicazioni periodiche di montagna che incentivavano le esplorazioni anche speleologiche e nel contempo la stesura di relazioni sulle scoperte compiute.
Da allora e per un secolo il Piemonte ha svolto però una speleologia molto blanda rispetto ad altre regioni. Le cause vanno ricercate nella prevalente verticalità delle grotte piemontesi (con gli ovvi problemi tecnici di attrezzature per quei tempi, inadeguate sia per la progressione che per l’illuminazione), nonché in obiettive difficoltà logistiche, essendo le cavità per lo più distanti dai paesi, paesi che a loro volta non erano raggiungibili se non con lunghi percorsi a piedi o su mulo. La speleologia piemontese è stata a lungo praticata da singoli cultori interessati soprattutto alla paleontologia e alla speleobiologia, e va detto che in queste discipline la nostra regione ha tenuto bene il passo delle altre.
Finalmente uno slancio di interesse è stato suscitato dalla scoperta della grotta di Bossea, o meglio della sua frequentazione (metà anni ’60 dell’800), da parte di studiosi tra cui B. Gastaldi, che hanno trovato ambienti entusiasmanti e ossa di orso speleo. L’indagine esplorativa e scientifica si è estesa ad altre cavità, già note o nuove; certi fenomeni dell’ambiente sotterraneo hanno cominciato ad essere svelati; altri ritrovamenti di resti di orso speleo si sono rivelati assai incoraggianti. Ma sino a dopo la Prima Guerra Mondiale la speleologia piemontese si è trascinata con spunti sporadici di vivacità ad opera sempre di singoli, tra i quali vanno ricordati, oltre al predetto Gastaldi, cultori multidisciplinari come F. Sacco, P. Bensa, G.A. Randone, F. Mader, A. Viglino, A. Vacca, A. Dodero, V. Strolengo, R. Gestro, G. Gentile, Brian, tutti attivi nelle Alpi Liguri e nel Monregalese, aree dove è concentrata gran parte delle grotte della nostra regione.
Dopo la Prima Guerra Mondiale il passaggio all’Italia del Carso triestino e delle zone carsiche istriane con Postumia è stato basilare per lo sviluppo della speleologia italiana, ma poco per quella piemontese. Un salto di qualità è avvenuto con il passaggio dall’attività individuale a quella associata: in Italia, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, esistevano 58 gruppi speleo mentre il Piemonte anteguerra contava appena due gruppi (1929 Varallo e 1932 Cuneo).
Per tutta la prima metà del ’900 la regione subalpina ha proseguito nella sua fase pioneristica emergendo con i soliti cultori isolati, tra cui G. Muratore, F. Capra, G. Natta, futuro premio Nobel, F. Costa, C.F. Capello. E’ progredita alquanto l’esplorazione territoriale con messa in luce delle varie aree carsiche, ma senza acuti nella scoperta e nello studio di grotte importanti.
La svolta è avvenuta nel 1952, con la discesa di speleologi nizzardi nel complesso di Piaggia Bella sino a profondità notevoli per l’epoca, e con la fondazione a Torino da parte di quattro giovani molto motivati di un gruppo che, l’anno seguente, sarebbe divenuto il Gruppo Speleologico Piemontese CAI-Uget. Rapidamente si sono materializzati grossi risultati per effetto dell’unione di forze attirate dal fascino dell’esplorazione sotterranea e sensibili alla ricerca scientifica, del continuo allargamento della schiera di adepti, della diffusione collettiva delle conoscenze per trasmetterle alle nuove leve, dell’adozione di tecniche più razionali di progressione. In pochissimo tempo lo sviluppo conosciuto e rilevato delle grotte piemontesi è più che raddoppiato. Le conoscenze scientifiche hanno trovato validi sostenitori in campo geologico, idrologico, morfologico, biologico, archeologico, paleontologico, speleofisiologico, bioambientale, paleopaletnologico e del folklore, mentre era dato impulso alla didattica (corsi di speleologia), al catasto delle grotte, alla pubblicazione delle ricerche, alla documentazione foto e cinematografica, a proiezioni e conferenze, all’organizzazione di mostre e convegni, a iniziative di protezione delle grotte, al progresso tecnico nelle attrezzature, all’attività speleosubacquea.
Con la crescita di gruppi di altre città tra cui Cuneo e Biella, il Piemonte ha raggiunto una posizione di rilievo nella speleologia nazionale e non solo. Le esplorazioni si sono spinte anche in altre regioni con risultati rilevanti e con primati di profondità e lunghezza. Ma più che al conseguimento di record, retaggio di una mentalità competitiva presto superata, si mirava oramai al progresso nelle conoscenze. Si era altresì ripudiato da parte dei veri speleologi il provincialismo che aveva caratterizzato i rapporti tra gruppi; è stata la speleologia torinese dall’inizio degli anni ’60 ad aprire fattive collaborazioni con altri speleologi italiani e francesi, dividendo con essi esperienze e risultati.
Negli anni ’70 si è avuto un forte incremento di esplorazioni e ricerche, si è dilatata la cultura scientifica ed è avvenuto un vero rivoluzionamento nelle tecniche di grotta, tale da alleggerire drasticamente l’attrezzatura, da velocizzare e facilitare le operazioni di discesa e risalita, da accedere a nuove prosecuzioni tramite più potenti mezzi di disostruzione.
Nei decenni successivi il materiale umano si è andato evolvendo verso un sensibile allungamento della carriera dello speleologo e un aumento conseguente dell’età media, con vantaggi in maturità ed esperienza e per la continuità delle ricerche. Criteri innovativi sono stati applicati a esplorazioni sistematiche, analizzando con perspicacia la struttura delle gallerie e dei pozzi, l’andamento delle correnti d’aria, il comportamento dei corsi d’acqua interni.
La Regione Piemonte, che già dal 1980 si era impegnata nella tutela del patrimonio biospeleologico con la L.R. 69/81, ha dispensato un aiuto decisivo affinché ricerche e pubblicazioni potessero avere luogo senza patemi di natura finanziaria attraverso il Settore Pianificazione Aree Protette che devolve apprezzabili risorse all’Associazione Gruppi Speleologici Piemontesi (AGSP). Tra le realizzazioni rese possibili va annoverato lo sviluppo dell’iniziativa del Gruppo Speleologico Alpi Marittime di Cuneo di una stazione scientifica a Bossea con le sue sezioni biologica e idrogeologica, operante in collaborazione con vari enti e con istituti universitari.
La possibilità di viaggiare prima insperate e le condizioni economiche individuali via via migliorate hanno indotto a organizzare o a partecipare a spedizioni all’estero, che per decine di volte da Francia, Turchia, Austria hanno imboccato poi vie extraeuropee: Pakistan, Brasile, Vietnam, Patagonia, Asia Centrale, Canada, Cina, Messico, la Réunion… Non si sono tralasciate le grotte delle foreste tropicali, né quelle subacquee, si pratica la speleologia glaciale, attività non scevre di pericoli ma ai confini delle conoscenze ed esaltanti per gli interrogativi scientifici che si presentano e per la ricchezza di esperienze anche sulla vita di popoli locali e sui problemi contingenti del mondo.
Sembrerebbe il caso di essere soddisfatti o ottimisti, ma come sempre nel cielo della buona stagione campeggia qualche nube temporalesca. Per dirla in termini di economia industriale, siamo un sistema maturo. Non siamo certamente fautori della crescita ad oltranza: è bello stazionare quando si è raggiunto un pacifico equilibrio. Però maturi significa pure che stiamo invecchiando. Come sta accadendo tra i frequentatori della montagna, così anche la speleologia mostra il fianco a una certa crisi dovuta a un insufficiente ricambio con forze giovani. Si assiste altresì a un calo di socialità, com’è risaputo in tempi di invadenza televisiva e di diffusione della comunicazione con cellulare o per vie informatiche. Del resto, con le nuove tecniche di grotta lo speleologo si era un po’ sganciato dalle necessità del gioco di squadra per condurre le esplorazioni.
In tutte le attività umane si alternano alti e bassi e noi confidiamo di trovarci in fase calante temporaneamente. Intanto ci godiamo l’invidiabile archivio scientifico costituito, mentre il Piemonte, con circa 2200 grotte catastate, resta tre le regioni che in campo speleologico vanno per la maggiore.

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